Col fuoco non si scherza. Emilio De Marchi

Col fuoco non si scherza - Emilio De Marchi


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morto giovine nella sua memoria. Ma andiamo avanti: oggi non è per me ch'io vivo: oggi devo anch'io tornar utile a chi mi vuole adoperare. Ezio mi dovrà condurre a visitare una tomba, che ha bisogno anch'essa d'un mio requiem. Lo devo dire anche per riposo dell'anima mia, perchè da troppo tempo porto chiuso nell'anima il peso morto d'un odio inumano e inutile. Chi rientra nell'amore rientra nella vita: e nulla fa tanto piacere come una buona fiammata domestica al comparire delle prime nebbie d'autunno.

      Su questo filo all'incirca correvano i suoi pensieri, mentre le cicale facevano coro dagli ulivi. Finalmente il piccolo Cresti comparì nel vano d'un portichetto e si avvicinò col suo passo diritto di soldatino di piombo, tenendo l'ombrello chiuso sopra una spalla come uno schioppetto e il pacchetto delle paste nella mano.

      —Senti, ho pensato che oggi ci può essere anche Flora e che è forse meglio rimandare il gran discorso a un'altra volta—disse quando fu vicino.—E forse è meglio ancora che io non ci sia.

      —Ho capito: anche tu hai una grande paura….—disse Massimo ridendo.

      —Tanta paura che mi tremano le gambe.

      —E allora—continuò Massimo, fermandosi nel mezzo della strada—che cosa andiamo a fare a Villa Serena? a che pro tormentarci a vicenda? Torniamo indietro.

      Cresti stette a sentire se l'amico diceva da senno: a che pro tormentarci? ma quando vide che Massimo rideva di lui, appuntando un dito, gli disse:—Sei giusto tu il capitano senza paura!

      —Tiriamo avanti, Massimo. Se saranno botte le piglieremo.

      E in questo discorso giunsero davanti a un cancelletto che metteva nel giardino della villa. Cresti lo spinse e fece suonare due forti campanelli che ne custodivano la soglia e che riempirono il cuore di Massimo di un diabolico spavento. Ma non fu solamente il suo cuore a balzare allo schiamazzo di quei due campanelli pettegoli.

      Anche donna Vincenzina, che aspettava da un'ora in ansietà, dopo una notte mal dormita, trasalì, impallidì, si lasciò andare sopra una sedia.

      —E ora che cosa fai? sei pazza?—esclamò la sorella Matilde, vedendola così smarrita—possibile che tu possa aver di queste paure?

      —Non è paura: paura di che? ma egli non è per me il primo che capita.

       Mi avrà perdonato davvero?

      —Che ti deve perdonare? tu hai sempre fatto più del tuo dovere.

      —Ma egli non sa tutto. Un mistero c'è tra me e lui.

      —Oramai è storia finita.

      —È storia finita: ma io, senza mia colpa, gli ho fatto un gran male.

      —S'egli avesse in cuore qualche rancore, non sarebbe venuto.

      —È vero. E poi, dodici anni sono una gran tomba. Va tu, va tu incontro per la prima: io vi raggiungo subito.

      Donna Vincenzina, rimasta sola, raccolse tutte le sue forze, si arrestò un istante davanti allo specchio passò le mani sulle tempie, corse col piumino della cipria leggermente sulla fronte e sulle gote, si considerò, forse si confrontò con un'altra donna d'altro tempo e nel venir via disse, lanciando un'occhiata al quadro ch'era a capo del letto:—Cara Madonna, aiutatemi voi!

      La zia Matilde trovò Ezio che aspettava nell'atrio e gli disse:—Dunque siamo intesi. Quel che è morto è morto.

      —Diavolo, zietta! e speriamo che nasca qualche cosa di bene.

      Uscirono insieme sul piazzaletto, mentre Massimo e Cresti scendevano adagio adagio per il sentiero ombreggiato. Al veder la figura di una donna, Massimo s'arrestò un momentino e, sforzando il fiato, chiese sottovoce:—Chi è?

      —È Matilde—mormorò il Cresti. Di mano in mano che scendevano dall'ombra verso la luce del piazzaletto, le cose si confondevano come dentro a una nebbia per il povero Massimo, che non sentiva più nemmen la voce del suo compagno, che gli faceva l'effetto d'un moscone. Fu scosso dagli schiamazzi allegri d'un giovinotto che, allacciandolo, stringendolo, palpandolo, gli gridava:—È questo dunque il mio vecchio zio d'America? oh, bravo: lasciati abbracciare, uomo selvaggio. Come ti si deve dire? cavaliere? commendatore? ambasciatore?

      —Zio, zio, zio…—potè finalmente esclamare quel pover'uomo affogato dall'emozione.

      —Un bacio me lo vuoi dare?

      —O caro…—proruppe con immensa effusione di affetto quel buon uomo d'uno zio d'America, posando un bacio lungo sulla testa del giovine, come se con quel bacio deponesse tutto il fardello de' suoi vecchi dispiaceri. E le lagrime uscirono molli dagli occhi a tutti e due.

      —Il merito è tutto mio d'averlo schiodato dagli antipodi—soggiunse il Cresti, che preso anche lui dalla commozione, per non saper piangere, andava movendo le gambe e agitando l'ombrello.

      —Mia zia Matilde—disse Ezio presentandola.

      —Oh…. oh…. Matilde, vecchia conoscenza—esclamò, ingrossando la voce, Massimo Bagliani per darsi della forza.

      —È sempre bello quando ci si ritrova—disse la pallida signora.

      —Ho amato il colonello Polony quasi come un mio padre.. Ma dov'è, dov'è.. la piccina? voglio dire quella piccina che dev'essere diventata un donnone? Dov'è Flora? soleva specchiarsi così volentieri nei bottoni d'argento della mia montura.

      —Flora non è potuta venire oggi: l'aspettavano alla villa Carlotta per non so quale complotto di matrimonio.

      Presento invece mia sorella, Vincenzina….—soggiunse, tirandosi un poco in disparte.

      —Oh… oh… donna Vincenzina, grazie, ho piacere… Che bel sito! una vista stupenda! brava…

      —Bravo anche lei!…

      I due personaggi si parlavano senza vedersi, perchè una specie di nube era improvvisamente discesa in mezzo a loro. A poco a poco Massimo potè in mezzo alla nebbia riconoscere una testa con molti capelli chiari, due grandi occhi chiari anch'essi, una figura di donna molto bella, forse ancor più bella d'una volta nella maestà matronale dei trent'ott'anni: ma vedere non è capire: tutta la forza del suo intendimento la concentrò nell'impedire a sè stesso di fare una cattiva figura.

      Ezio e Cresti vennero opportunamente in aiuto. Entrarono in casa, fu servito il caffè nella bella veranda a vetri piena di ombre verdi e di fiori, ingombra di oggetti smaglianti, nel vago disordine dei mobili e nella mescolanza delle stoffe. La linea del lago si vedeva luccicare tra la chioma dei platani e la balconata in uno sfondo luminoso in cui passavano le vele gonfie di ritorno dal mercato. Nella buona compagnia e nella evocazione delle antiche memorie, molta gente morta e dimenticata fu chiamata fuori e rimpianta, si consultarono molti ritratti già sbiaditi nelle loro cornici, si ricordò la vita di Torino, di Novara, di Vercelli, i tempi eroici e i tempi romantici con una così buona volontà dalle due parti, che ricondusse il sentimento e la giovialità della giovinezza.

      La nebbia che velava gli occhi si dissipò a poco a poco e i due antichi fidanzati si riconobbero. Essa era ancora la bella figura alta, bionda, d'una biondezza cenericcia, dalla fisionomia larga o delicata, dagli occhi quieti che parevano veder poco lontano e somigliavano alla sua voce per la soavità dell'espressione. Parlava scarso, in tono sommesso, svelando una natura sensibile fino alla paura, incapace d'imporsi e di affermarsi con una qualsiasi iniziativa, incapace ancor di più di volere e di non volere, di agire e di vivere per proprio conto. Ma appunto per tutte queste sue qualità negative Vincenzina era di quelle donne che son più di altre capaci di far la felicità di un uomo energico, che abbia bisogno di un'obbedienza assoluta come un cuscino di piume su cui riposare la forza dell'egoismo.

      Camillo Bagliani era stato quest'uomo.

      Dal giorno che con una violenza di passione aveva preso possesso di questa creatura, se n'era compiaciuto gelosamente come d'un bene dolce e arrendevole, che compensava gli acri umori del suo temperamento biliare e le asprezze della sua rapida decadenza fisica.

      Vincenzina,


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