Col fuoco non si scherza. Emilio De Marchi
—Non capisco se questo Pomponio è una persona sola con Labeone o so siano due giureconsulti.
—Che te ne importa? quando si sta bene in salute.
I due giovani risero di nuovo in coro e fecero ridere di nuovo la mamma zietta, che si sforzava di aguzzare una faccia severa sopra il calcagno d'una calza che teneva nelle mani.
Essa temeva sempre in cuor suo che Flora si abituasse a scherzare col fuoco e ne avesse poi a riportare qualche scottatura. Ma Flora diceva sempre:—Non aver paura, mamma; so fin dove posso andare.
—Tira avanti che è bello, Flora—comandò Ezio.
—«Ulpiano afferma…»—ma li conosci tu questi bravi signori?
—Ulpiano credo di averlo sentito nominare. In quanto a Pomponio Labeone, dacchè l'ho dato alla balia, non ho mai avuto notizie de' fatti suoi.
—«Noi non intendiamo con ciò di negare il fattore antropologico del delitto—continuò Flora, leggendo nel manoscritto—ma intendiamo soltanto di dimostrare questa verità: l'unione degli individui peggiora moralmente ciascuno,»—Ma sai che quel tuo gobbino ne dice delle belle? Par che abbia conosciuto Lolò.
—Va avanti, lingua velenosa,
—«Avviene allora…»—senti anche tu, mamma, come scrive bene il nostro Ezio, quando fa il Pomponio Labeone:—«avviene allora una degenerazione fatale dovuta a quella verità dolorosa che nella società come nella natura sono i germi peggiori quelli che più facilmente si riproducono e si diffondono. Il microbo del male ha una potenza d'espansione infinitamente più grande di quella del bene—(Flora andava alzando la voce in tono di predica, gesticolando con un dito in aria)—giacchè, mentre pur troppo si sa che molte malattie sono contagiose, non è ugualmente provato che sia contagiosa la salute…»
—Ti giuro, zietta, che non le ho scritte io queste belle parole: è tutta sapienza del gobbetto.
La lettura andò avanti ancora un pochino a spinte e a calci; ma quando si fu alla fine del primo capitolo e che si annunciò il secondo sul «Manutengolismo» Ezio si alzò e disse:
—Basta per oggi: ho fame.
* * * * *
Mezz'ora dopo sedevano tutt'e tre intorno alla piccola tavola imbandita sulla terrazza, nell'ombra fitta d'una pergola di vite americana, che si appoggiava da una parte al muro della casa e dall'altra al grande oleandro in fiore. I due giovani, messi in vena dalla giurisprudenza, fecero onore alle uova, al montone, al pane fresco e al vin bianco non troppo brusco. Si parlò delle prossime Regate, che dovevano quest'anno aver luogo nel bacino di Tremezzo e che avrebbero attirata mezza Lombardia. Ci dovevano essere corse a vela, corse di canotto, corse di barcaiuoli, per le quali si stavano già raccogliendo ricchissimi premi e vessilli dalle patronesse. Ezio nella sua qualità di vice presidente aveva offerta la bella coppa d'argento vinta lo scorso inverno col suo Morning Star a Nizza, dove aveva battuto i canottieri della Senna. Di Tremezzo avrebbe corsa la gara dei barcaioli il bell'Amedeo, il fidanzato di Regina, che sperava quest'anno di battere quei di Gravedona.
Ezio, animato dal vinetto bianco e dall'aria viva che rinfrescava il terrazzo, passò dalla nautica a discorrere di scherma, e piantatosi nel mezzo dello spazio libero, mostrò a quelle due donne e alla vecchia Nunziata, che entrava col piatto dei fichi, come si giuoca una finta all'avversario, quando lo si attira per appoggiargli una puntata al petto. Flora corse a prendere due bastoni e provò a incrociare il suo ferro con quello del quasi cugino, che dopo varie mosse di cortesia, si lasciò ferire nello sparato della camicia per dar spettacolo di un uomo che, colpito a morte, barcolla e cade boccheggiando nel proprio sangue.
La mimica commosse tanto la povera Flora, che chinatasi con un ginocchio a terra sul finto morente, finse di piangere e di strapparsi i capelli rossi, i quali si sciolsero davvero dalle stringhe e dalle forcine posticcie e scesero nella loro straordinaria e rubiconda abbondanza sopra le spalle e il busto. La vecchia Nunziata, affascinata, stava lì immobile come stanno le statue del Sacro monte, colla faccia irrigidita nelle grinze, in una espressione di comica afflizione, quasi dubitasse che il signor Ezio fosse ferito davvero; e intanto lasciava cascare i fichi dal piatto.
Flora era ancora in quell'atteggiamento di Maddalena, cercando di sollevare la testa del falso moribondo, quando la signora Matilde, scattando improvisamente, gridò;
—O Cresti, da dove è scaturito?
—Dall'uscio.—Sulla porta della sala, due passi dietro la donna dei fichi, s'era fermato anche lui in un atteggiamento tra il comico e il disgustato, il solitario del Pioppino, che teneva tra le mani un canestrello di vimini, coperto da un tovagliolo, una vera figura anche la sua di presepio meccanico.
—O Cresti—declamò Ezio in accento tragico, stendendogli la mano dal terreno—tu arrivi a tempo a baciare un moribondo. Pianta, ti prego, una carota sulla mia tomba.—Com'ebbe detto ciò si lasciò andare morto del tutto, acciuffando un paio di fichi che si mangiò colla pelle.
—Morirà la capra d'una povera donna, non certe bestie—brontolò, facendosi avanti con lenti passi il padrone del Pioppino fino alla tavola, dove collocò il prezioso canestrello, che dava dei guizzi come se avesse dentro qualche cosa di vivo. Quando Flora potò supporre quel che di veramente vivo ci doveva esser dentro, dette un grido di gioia, e così come si trovava, con quella fiera chioma disciolta sulle spalle, rimosso con precauzione il capo del tovagliuolo, si prese nelle mani un coniglietta vivo, tutto bianco, una morbidezza calda che faceva tenerezza a stringere: e piagnucolandogli sopra, colla bocca appoggiata al pelo liscio e morbido-.—O che caro Cresti, si è ricordato! guarda, mamma, come son belli, Son novellini?
—Hanno poco più di una settimana.
—Cari, cari! e mangiano da soli?
—Cari, cari—disse Ezio, risuscitando—e come si mangiano?
—Tu stai meglio morto…—gli disse Cresti, mettendogli la mano dura sul petto.
—Tu mi odii, o Cresti: lo sento, lo vedo: uno di noi è troppo sulla terra. Ti lascio la scelta delle armi.
—La scopa, la scopa—ribattè il misantropo, divincolandosi tra le strette di Ezio che cercava di fargli ballare un minuetto. Quando fu possibile avviare un discorso ragionevole, Cresti insegnò a Flora come dovesse trinciare minutamente delle foglie di cavolo, ammollarle nel latte in una scodella, e come dovesse a poco a poco imboccare i coniglietti. Poi volgendosi a Ezio, gli disse bruscamente:
—È arrivato tuo zio Massimo.
—L'ambasciatore della Bolivia? e perchè non viene ad abbracciare l'unico suo nipote?
—Verrà, verremo insieme, Ora è un po' stanco del viaggio.
Ezio tirò un poco in disparte la zia Matilde e abbassando la voce, domandò:—Questo mio zio doveva sposare la mia madrina, non è vero?
—Come sai questa storia?—esclamò essa, arrossendo e confondendosi.
—Ho trovato alcune lettere tra le carte del babbo; ma voi sapete che sono uomo di mondo capace d'intendere e di compatire.
La zia Matilde strinse la mano del giovane nelle sue e mormorò:—Son storie di altri tempi: storie morte o sepolte.
—Io non desidero che di voler bene a chi mi vuol bene,
—Bravo Ezio!—disse la zia con voce commossa. Improvvisamente il giovane si ricordò che per le undici e mezzo doveva trovarsi col Bersi e con altri amici del Comitato.
Il tempo gli era volato via più presto del solito quella mattina. Sentendo sonar mezzodì, scese la scaletta che dal giardino va alla riva e diede una voce ad Amedeo, che stava stendendo alcune reti al sole. Il giovinetto venne colla barca.—Addio, addio, e grazie di tutto…—gridò saltando nel legno e afferrando un remo.—A rivederci domani per il secondo capitolo; e tu, Cresti, non augurarmi una perfida morte. Saluti carissimi allo zio: ditegli che l'aspettiamo a colazione;