Col fuoco non si scherza. Emilio De Marchi

Col fuoco non si scherza - Emilio De Marchi


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un poco più della loro sete. C'era nel loro confuso risentimento anche un segreto rancore contro un così detto Cognac tre stelle, che don Erminio Bersi aveva travasato agli amici senza economia. Lolò mezzo istupidito, per quanto annaspasse colle mani, non riusciva a discernere il capo dalla coda de' suoi remi: e rideva, rideva della sua incapacità d'un bel ridere fatuo, in faccia alla luna che bianca e tonda versava sull'acqua una bella luce tremolante.

      Tutte le cime dei monti che circondavano il lago si disegnavano nitide sul cielo: in fondo il Legnone e la Grigna, due colossi, che parevano ingranditi in una misteriosa trasparenza, e più avanti gli altri monti più modesti, dai nomi meno conosciuti, dalla fisionomia meno espressiva, che versavano i loro fianchi ossuti nei golfi oscuri, densi di ombre e di secreti.

      Nella spaccatura della Val d'Intelvi disegnavasi nel palpito lunare una specie di scena interna, profonda, in cui dominava come su un altare il Santuario di Sant'Anna.

      Tutta la bella Tremezzina era lì spiegata in una sfilata di case immerse nella gran pace dell'ora notturna, solenne, tremolante di sogni.

      —Lavora, fannullone—comandò Ezio Bagliani che nella sua qualità di vice-presidente della Società dei Canottieri era detto anche il vice-ammiraglio. E per essere più sciolto si tolse la giacca e il cappello, che buttò sul sedile di poppa.—Andiamo, in quattro colpi siamo al di là.

      —Sento una zampa d'aragosta che mi graffia lo stomaco—sogghignò don Andreino, che alle prime ondulazioni del canotto credette veramente che qualche cosa di vivo si movesse in mezzo allo Sciampagna. Non riuscendo nè di reggersi, nè di star seduto sulla banchina, andava brancicando in ginocchio tra le assicelle del legno in traccia d'una pipa che gli era sfuggita dal taschino e di cui non poteva più far senza.

      Il suo compagno, più forte, più superbo, dopo aver cercato di dominare il suo vino col dirne male, afferrò i remi e colla salda vigorìa de' suoi ventiquattro anni, riattivata l'energia dei muscoli e svampati i bollori al soffio dell'aria frizzante, cominciò a battere l'onda con colpi lunghi e ben assestati, che fecero volare il canotto riluttante tra i larghi cumuli d'acqua, resi pesanti da un contrario venticello di tramontana.

      All'improvviso un colpo di pistola risonò nel grave silenzio a risvegliare gli echi più addormentati della montagna.

      —È ancora quella pazza ubbriaca di Vera che tira ai palloncini: finirà coll'ammazzare qualcuno, se non la fanno smettere—disse Ezio.

      Sul terrazzo del Ravellino dondolavano al vento gli ultimi palloncini d'una illuminazione giapponese che don Erminio Bersi aveva allestita in onore degli amici e di certe sue amiche, mentre or sì or no venivano sui voli d'aria gli ultimi schiamazzi della baldoria. Rovinato nel credito, diffidato dai parenti, perseguitato dai malvagi creditori don Erminio Bersi a trent'anni, messo nel bivio o d'imbarcarsi per l'America o di sposare le ottocentomila lire d'una Pezzani di Codogno, un nome quasi glorioso nell'industria del formaggio, aveva preferito le ottocentomila lire; ma prima di dare un estremo addio al mondo e alle sue pompe aveva voluto radunare un'ultima volta al Ravellino gli amici dell'Asse di cuore e gli altri ch'eran soliti ritrovarsi con lui d'inverno nelle sale superiori del Caffè Storchi a Milano, cioè oltre a Ezio Bagliani e ad Andreino Lulli, Tito Netti, Filippino Doria, il marchese Schiavi e le più ragionevoli loro amiche, tra cui Vera Spino, Liana detta la Spagnuola e quella patetica Gismonda, mima simbolica, come dicevano gli adoratori, bellezza trasparente che morì tisica a San Remo, dopo aver rovinato un paio di principi russi.

      Nelle sale del Caffè Storchi i compagni dell'Asso di cuore non pretendevano di far dell'accademia, nè della politica, nè dell'economia sociale; ma semplicemente divertirsi nel miglior modo, ciascuno secondo i propri mezzi e le proprie facoltà. Vi si cenava spesso dopo i teatri, vi si facevano dei giuochi atletici, della ginnastica svedese, dello sport da camera, vi si giuocava a scopa, a bezigue, perfino alla briscola plebea: vi si declamavano delle concioni e dei versi, si cantava, si miagolava su un disperato pianoforte, vi si facevano insomma delle allegre goffaggini in mezzo al fumo degli avana e delle pipette di gesso all'unico intento di non sentire il peso della noia, che facilmente strapiomba su chi ha poco da fare e nulla da pensare. Tutto era permesso, tranne il dire una cosa troppo seria e troppo sensata. Chi si fosse lasciato scappare di bocca una sentenza o un proverbio con intendimento pedagogico doveva pagare o scontare il delitto con qualche speciale supplizio. La notte che arrivò il telegramma che annunciava il disastro di Dogali, per non lasciarsi traviare a sentimenti di troppa commozione, Filippino Doria comandò gli esercizii militari e per una mezz'ora condusse intorno al biliardo la schiera degli Ascari ammantati in bianche tovaglie, col viso dipinto di cioccolata, finchè fu decretata la morte di Ras Alula nella persona di Lolò, cioè del contino Lulli. Gli fecero una testa africana col nero fumo, lo addobbarono di tovaglioli e punf…. lo fucilarono con le stecche. Liana per simulare il sangue gli versò nel colletto della camicia una mezza bottiglia di vin di Barolo.

      A parte questi giochi eran del resto tutti buoni figliuoli; buoni, s'intende, a far nulla; ma già qualcuno cominciava a capire che a questo mondo non si è venuti soltanto per far delle schiocchezze. Erminio Bersi stava per prender moglie; Ezio Bagliani carezzava l'idea di finire i suoi studi legali e di pigliarsi una buona volta la sua laurea a Genova o a Pisa. Don Andreino, trascinato nell'orbita di suo cugino deputato, il conte Andrea della Roncaglia, mescolava alle corse, alle regate, un po' di sport elettorale e qualche sua personale velleità politica,

      —Sei proprio in collera del tutto con Liana?—chiese don Andreino, quando dopo infiniti patimenti ebbe finalmente infilato il remo in una forcella.—Mi ha detto che tu le fai un gran male,

      —Ne ho gusto.

      —Non vuoi proprio più saperne di lei?

      —Non si è già consolata abbastanza col suo americano?

      —L'americano è un ripiego.

      —Sai quel che mi ha fatto a Nizza?

      —Lo so: ma tu sei troppo feroce, Ezio.

      —Vada a farsi benedire. Mi ha seccato abbastanza. E poi ho bisogno di far giudizio quest'inverno.

      —Ho capito—soggiunse Lolò quasi piagnucolando—vuoi prender moglie anche te. Allora io faccio il deputato.

      —Bada, tieni a destra. Vedo laggiù al Castelletto la finestra di mia cugina Flora ancora illuminata. Andiamo ad augurarle la buona notte.

      —Due minuti dopo il canotto ballonzava sotto il terrazzo d'una modesta casa posta a picco sul lago sostenuta da tre archi di muro e coronata da una torricciuola merlata dipinta a striscie rosse e nere, che giustificava agli occhi della gente il nome di Castelletto. Per quanto umile e goffa nella sua struttura di pasticcio mal riuscito, tuttavia all'indulgente raggio della luna anche quel vecchio rudere di casa colorata, chiusa tra un cipresso da una parte o un gran ciuffo di oleandri dall'altra, aveva la sua modesta poesia.

      —Ohe, Flora…—gridò Ezio, intonando il deh vieni alla finestra del Don Giovanni. La finestra illuminata si aprì e dalla porta a vetri uscì sulla terrazza la ragazza dai capelli rossi, in una vestaglia chiara, che il raggio candido della luna avvolse d'una luce patetica.

      —Che fate in giro a quest'ora, vagabondi? gridò Flora.

      —E tu che cosa fai al mesto lume della lucerna?

      —Sto copiando quella tua dissertazione di laurea. Sai che il tuo gobbetto ha una scritturaccia da gallina?

      —Ti presento don Andreino Lulli, una grande autorità sportistica e un futuro uomo politico.

      —Per celia, signorina—corresse il contino agitando il cappello.

      —I vostri schiamazzi dal Ravellino arrivano fin qua, Chi è che giuoca al bersaglio?

      —Vogliono ammazzare la luna.

      —È una vergogna, a quest'ora.

      —La mamma sta bene?

      —Dorme.

      —Non logorarti troppo gli occhi per me, povera Flora. Domattina sei in casa?

      —Sempre


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