Col fuoco non si scherza. Emilio De Marchi

Col fuoco non si scherza - Emilio De Marchi


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      Se il Cresti apparteneva alla schiera di coloro che diffidano degli uomini, questo signor Massimo, che stava per arrivare, apparteneva a quella non meno numerosa di coloro che diffidano di sè stessi, cioè ai malati di troppa riflessione.

      L'uno era uno scontroso, l'altro un timido, colla differenza che c'è fra una capra ostinata capace di cozzare, anche coi corni rotti, contro un pilastro, e un coniglio a cui lo scatto d'una trappola fa battere il cuore fino alla soffocazione. Il Cresti, rimasto sempre solo, s'era rinforzato nella sua selvatichezza, che è come le squamme per gli animali deboli. Massimo, in frequenti contatti cogli uomini e colle cose, dopo aver viaggiato le quattro vie del mondo e preso parte ai delicati intrighi della diplomazia, tornava a casa dopo dodici anni d'assenza, un po' meglio dotato di quella esperienza che insegna a compatire negli altri anche sè stesso.

      Quando un nuovo suono di cornetta avvisò che il battello stava per approdare, il cuore del Cresti si mosse sotto l'impulso di un soave sentimento, che gli fece correre la saliva per la bocca. In questi lunghi dodici anni, per quanto divisi dagli oceani, i due vecchi amici non avevan mai cessato di scriversi, ed eran state lettere lunghe, espansive, come sogliono essere quelle delle persone che parlan poco. S'eran lasciati giovani, nel fiore della vita, e stavano per rivedersi, non vecchi, ma al volgere di quella seconda età, che può dirsi il settembre della vita. Le foglie non cadono ancora, ma è bene che non piova troppo sopra le piante. Il tempo che abbrunisce le muraglie e dà la patina al bronzo, non passa inutilmente sulla facciata e sull'interno d'un uomo. Alcune idee e molte parole ch'eran già fresche in giovinezza hanno ora un aspetto secco, altre prima così care e preziose diventarono trite e frivole; la voce ha un tono più basso e l'illusione che prima volava in un cielo spazioso, se non è morta, vive malinconicamente in una gabbia.

      Quando il battelliere sonò la campana e gridò la stazione di Tremezzo, un signore vestito d'un perfetto costume di viaggio, con una borsetta di cuoio a tracolla, girò il canocchiale che aveva agli occhi e cercò di scoprire nella folla che si addensava all'imbarcadero una figura d'uomo che gli ricordasse il vecchio amico; e quando il battello cominciò a rallentare, provò ad agitare il fazzoletto, a cui rispose un ombrello chiuso dalla riva, un segnale da innamorati che ebbe la forza di farli arrossire tutti due. Massimo, dopo aver ben bene esplorato, visto che non c'eran signore di sua conoscenza, si rallegrò vivamente. Cresti aveva obbedito alla consegna. Un incontro improvviso con una certa signora, lì sul ponte dello sbarco, sarebbe stata una cosa molto imbarazzante.

      Il battello appoggiò adagio adagio, scricchiolò contro i pali e la folla cominciò ad incontrarsi sul ponticello mobile. Quasi sospinto da essa e dai facchini che trasportavano i bagagli, il commendatore Massimo Bagliani si trovò, non sapeva ben dire in che modo, all'ombra d'una robinia con due mani nelle mani, davanti a un ometto vestito di grigio, che aveva lasciata crescere una barbetta crespa sopra una faccia di terra cotta, in cui brillavano due occhi neri, la faccia bruna di can barbino dell'unico e invariabile suo amico Cresti. E questi, dopo aver palpata e allacciata colle braccia la rotondità d'una discreta pancia che dodici anni prima non esisteva ancora, si arrampicò sull'amico colossale e volle baciarlo e farsi baciare: tutto questo in silenzio, s'intende, come è bene di fare quando si avrebbero troppe cose a dire. Pareva quasi che piangessero; ma bisognò occuparsi subito del bagaglio, che un rapace portiere d'albergo pretendeva di portar via.

      Tognina—disse il Cresti a una delle due ragazze, che era discesa con una gran gerla sulle spalle—prendi queste tre valigie.

      La donna mise la roba nella gerla, caricò questa senza fatica sulle vecchie spalle abituate da cinquant'anni a portar ben altri pesi e andò avanti a battere la strada per un viottolo sassoso che si distaccava quasi immediatamente dalla via grande presso la chiesa e si arrampicava a scalini disuguali su per la schiena del monte.

      —In questi paesi o su o giù, in piano se si può—disse finalmente Cresti, che pareva diventato un turacciolo accanto alla massa corpulenta del signor commendatore, che somigliava piuttosto a un fiaschetto di Chianti.—Tu avrai dio sa che sete e che fame: ma intanto che noi facciamo questi centotre scalini, l'Angiolina, che ci ha visti partire dal battello, fa andare il risotto a tutto vapore.

      —Centotre scalini…?—domandò l'ambasciatore con un senso di sgomento, soffermandosi sopra uno dei primi dodici.

      —Ma poi la strada va piana. Ti ricorderai dell'Angiolina e della

       Tognina, le nostre due ragazze d'una volta. Questa è la Tognina.

       Guardalo un po', Tognina: lo riconosci? non si è fatto più bello?

      La Tognina che s'era voltata d'un terzo sopra i suoi zoccoli, colle braccia arcuate come le anse d'una anfora, dopo aver arrossito al di sotto della ruvida corteccia, disse colla cantilena del paese:—Stava forse un pochetto più bene nella montura: però il tempo non gli ha fatto male, sor Massimo.

      —Sor commendatore, si dice—corresse il Cresti.

      —Bisognerà pure che ci lasci parlare a nostro modo.

      —Hai proprio detto centotre scalini?—chiese ancora Massimo, fermandosi a prendere un po' di fiato all'ombra di una cappelletta sull'incontro di tre viottoli.

      —Il tempo di cuocere il risotto: abbi pazienza!

      —C'eran questi centotre scalini dodici anni fa?

      —C'erano, ma forse erano più dolci. Anche i sassi peggiorano col tempo. Al Pioppino non troverai nulla di cambiato, nè un chiodo, nè una sedia, nè una stoffa. Non manca che quella povera donnetta di mia madre, che ho fatto portare laggiù, dove spunta quel cipresso. Era il suo gusto negli ultimi anni di stare alla finestra a vedere il lago; e spero di andare anch'io a mio tempo a vederlo da quel cipresso. È stata lei che ha voluto far rinfrescare questa cappelletta e ritoccare questa brutta Immacolata, per la quale aveva una divozione speciale. A volte si dice: peccato non poter credere!…. Del resto qui il tempo passa che tu non te ne accorgi. Non è scomparsa la neve che ci son le violette; le violette cedono il posto al fiordaliso e al papavero; questi all'uva, l'uva alle castagne, le castagne alle nebbie e al freddo.

      —E alle partite a scacchi….—aggiunse l'amico con intenzione.

      —Anche—confermò l'altro, arrossendo un poco.

      —Si ricorda ancora la piccola Flora di me?

      —Piccola…. Tu vedrai che donnone s'è fatta.

      —Sicuro, dodici anni son molti: me ne accorgo al peso di questi scalini.

      —Forse io ti faccio correre troppo.

      —La diplomazia va sempre adagio nelle cose sue.

      —Ha sempre questa bella pancia la diplomazia?

      —Non giudicare dalle apparenze. Vorrei che il cuore fosse più giusto.

       E invece fa quel che vuole.

      —Tre mesi al Pioppino guariscono tutti i mali.

      —Faremo i nostri conti.

      Finita la scalinata, la strada prese a serpeggiare tra due muricciuoli alti, ombreggiati dai gelsi e dalle piante di fico, che sporgevano dai campi: salì poi un trattino dura e selciata, finchè la comitiva si fermò a un cancelletto dipinto in rosso che metteva in un brolo, e il brolo era attraversato nel suo lungo da un viale fiancheggiato da due folte siepi di grossa mortella regolata e riquadrata come un muricciuolo. In fondo a questo viale partiva una scala di cinque o sei gradini lunghi di vecchia pietra sconnessa con grossi vasi di limone ai lati, fino a un portichetto quasi rustico da dove l'occhio spiccavasi liberamente su tutta quanta la superficie del lago, da Lezzeno fino alle lontane sponde di Bellano o di Dervio, con tutto quanto il monte Legnone per prospettiva, come se la montagna fosse stata fatta apposta e messa lì nell'arco di quel portichetto.

      —Qui è la mia officina, il mio salotto d'estate, il luogo dove faccio i miei sonnellini, quando è troppo caldo. Quassù vedi i nidi delle rondini che mi tengono buona compagnia: per di qua si va in cucina: qua c'è un grottino fresco per il vin vecchio: per di qui si passa agli appartamenti superiori, da dove la vista è ancora più larga. Ti ho fatta preparare la


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