Col fuoco non si scherza. Emilio De Marchi
era stata già del suo povero babbo. Qui il brav'uomo aveva languito gli ultimi mesi, qui era morto. Vicino a questa camera si apriva lo studio vasto, ancora arredato da solidi scaffali, pieni di libri e di carte, e popolati dei cento oggetti che parlavano della sua vita e delle sue opere. Tra due scaffali un busto di marmo lo rappresentava nel vigore degli anni e della fortuna, quando su proposta di Quintino Sella, che aveva avuto di don Camillo Bagliani un'alta opinione, era stato mandato prefetto in Sicilia in un momento di grave pericolo sociale. E in un quadro era esposta tutta la raccolta delle sue decorazioni, che cominciavano con una piccola medaglia commemorativa della battaglia di Palestro e finivano colla commenda dei SS. Maurizio e Lazzaro.
In faccia al busto del babbo, nello spazio tra le due finestre, in una ricca cornice d'oro pendeva il ritratto a olio di sua madre, la povera contessa Saulina di Pianello, una bellezza dolce e delicata, scomparsa troppo presto tra gli strazi d'un lento esaurimento nervoso.
Questo era per Ezio come un santuario: e quando, sottraendosi alle dissipazioni della vita esterna, poteva raccogliersi una mezza giornata tra le sacre memorie e metter le mani nella corrispondenza di suo padre, il giovane Bagliani sentiva dentro di sè quasi un senso di ribellione contro la miseria di quel suo vivere, tra gente fatua, che nel suo orgoglio istintivo sentiva di stimare meno dei cani.
Fu in uno di questi momenti di resipiscenza che pensò di romperla con Liana, una vagabonda che pretendeva di comandargli e che gli aveva già fatto molte scene disgustose: e da tre mesi si vantava in cuor suo di saper resistere alle tentazioni. Anche il desiderio di dar l'ultimo colpo a' suoi studi e di prendere un titolo accademico secondo il desiderio del povero babbo, andava parlandogli in cuore come un rimorso.
Tra le molte disuguaglianze di spirito che la natura gli aveva regalato c'era in Ezio un fondo massiccio d'orgoglio che gli impediva di scendere fin dove il fango arriva agli occhi. Avveniva che dai più irregolari eccessi, quasi per rifarsi un credito davanti a sè, si chiudeva come un bimbo cocciuto per quindici o venti giorni in camera, dove si dava a studiare a più non posso, come se dovesse pubblicare un nuovo Digesto.
Da un mese era in questo periodo di penitenza e di esercizi spirituali e, se aveva ceduto una notte all'invito di Erminio Bersi, sentiva di esserne tornato ancor più sazio e ancor più convinto che la vita non può essere soltanto in fondo ai piaceri.
Per far venir l'ora di andare da Flora, tolse il violino dall'astuccio e corse una mezz'ora sulle corde, ripetendo a memoria tutte le scale degli esercizi che da cinque o sei anni tormentavano il vecchio strumento. Per quanto la naturale disposizione l'aiutasse, il nostro filarmonico non aveva mai saputo uscire da quella mezza capacità, che fa desiderare e rimpiangere l'altra mezza. Forse aveva ragione di dire il suo maestro Pazzini che i topi avrebbero fatto più presto a rosicchiare lo strumento di quel che Ezio Bagliani a studiarlo. Ma quel poco, così frammentario e rappezzato, gli serviva qualche volta a ingannare il tempo, quel benedetto tempo che in fondo, come si dice, è galantuomo e non merita di essere ingannato.
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Prima delle otto al Castelletto era già tutto in ordine e nitido come uno specchio. Dalle sei alle sette Flora nella brezzolina fresca, che veniva dal lago, aveva finito di copiare la grossa dissertazione sulla Complicità, che per settanta lire Ezio aveva acquistata da un povero storpiatello di studente, bisognoso e bravo in questi studi come un Cuiacio. Con quattro raffazzonature di stile gli aveva data apparenza di roba nuova e sperava con quattro ciarle di darla a bere ai professori della Facoltà, che hanno delle dissertazioni, specialmente di quelle grosse, un rispetto quasi istintivo che lì dispensa spesso dal leggerle. Flora aveva dovuto lottare un poco per decifrare gli sgorbi d'una scrittura storpia come il suo autore. Tutto quel gran latino ch'essa non capiva, tutte le citazioni giuridiche e i commenti ermeneutici che avrebbero fatta la disperazione d'un cancelliere, s'eran trasformati, passando sotto la sua penna di acciaio, in una magnifica scrittura violetta, aperta, slanciata, decorata di fregi e di svolazzi che gli eguali non avevano mai veduto i parrucconi dell'Università.
Dalle sette alle sette e mezzo era scesa in giardino a innaffiare i quarantacinque tra vasi e vasetti della sua botanica e a dar da mangiare alle quattro galline del pollaio. Aveva portato il caffè in camera alla mamma e combinato con lei una lista per far onore al quasi cugino di Villa Serena, che si degnava di venire a colazione al Castelletto. Si stabilì che alle due uova si dovesse aggiungere una costoletta di montone, un caffè e panna e un piatto di fichi primaticci. In quanto al vino si poteva far prendere all'osteria un certo bianco non troppo brusco che Ezio aveva una volta portato alle stelle.
Dati gli ordini alla vecchia Nunziata, Flora preparò la tavola sul terrazzo in ombra con quanto vi era di più bello e di meno scornato nella dispensa: e verso le otto si ritirò in camera a lavarsi e a pettinarsi. De' suoi tre vestiti più presentabili scelse uno di percalle celeste a fiorellini bianchi senza cintura, chiuso con una semplice arricciatura intorno al collo: un abito di carattere infantile, che la faceva parere più alta e più leggera. Que' suoi folti capelli color del rame (checchè si dica contro il rosso) non istavano male sopra il percalle scolorito, che oltre a scendere con pieghe morte e lunghe, come si vedon dipinti certi angeli di frate Angelico, coi capelli d'oro, aveva il vantaggio di nascondere un paio di stivaletti non troppo in armonia tra loro.
Mai il tempo non le era parso così lungo e abbondante come quella mattina! o le mani lavoravano troppo in fretta o troppo in fretta lavorava il suo pensiero. Dacchè Ezio aveva ripreso a frequentare il Castelletto col pretesto della Dissertazione, qualche cosa d'insolito era entrato nella vita scolorita ed eguale della casa, che da cinque o sei anni dormiva nella pigrizia delle loro padrone. Flora aveva riaperto il vecchio pianoforte, detto il trappolone, e procurava di farlo stridere meno orribilmente sotto le sue dita di acciaio. Un po' meno di polvere si accumulava sui mobili e qualche ragnatela di meno intorbidava il ritratto della nonna Celina sul fondo slavato della tappezzeria di carta color ulivo.
Quantunque Ezio non fosse per Flora che un cugino posticcio, perchè la zia Vincenzina non era che una seconda madre per il giovane, tuttavia i due ragazzi eran cresciuti, si può dire, insieme all'ombra delle stesse piante; e si trattavano col tu, sebbene la diversità della loro condizione sociale e gli anni passati da Ezio all'università li avesse separati più di quel che fosse nei loro gusti e nei loro intendimenti.
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Il Conte Stanislao Polony, padre di Flora, di antica famiglia di Varsavia, era venuto giovanissimo in Italia col celebre poeta Adamo Mickiewicz a offrire il suo braccio alla nostra causa nazionale e dopo aver combattuto nelle cinque giornate di Milano, era stato con altri polacchi incorporato nell'esercito sardo. Aveva col grado di capitano combattuto in Crimea e nel cinquantanove era stato nominato colonnello sul campo. Dopo la pace di Villafranca sposò Matilde Stellini, figlia d'un modesto impiegato della Tesoreria provinciale, la quale lo consolò presto col dono di una bella bambina dai capelli d'oro, i capelli della nonna Celina. Scoppiata la guerra del sessantasei, il conte Polony fu tra le prime file e cadde colpito al cuore alle prime cariche alla testa del suo battaglione, lasciando la moglie e la bambina in qualche strettezza.
I beni dell'antica famiglia erano stati confiscati fin dal dì che i Polony s'eran mescolati ai moti politici del loro paese. Anche la nonna Celina, che ora guardava dal di sopra del pianoforte con uno sguardo tenero, dentro la sua vecchia cornice tarlata, anche questa figurina minuscola dai labbri rosei e dai cappelli di fuoco aveva rappresentata una parte tragica negli avvenimenti e nei rivolgimenti della patria. Donna di singolare energia, accesa di santa fiamma per la causa nazionale, inscritta ad una società segreta, la sua manina delicata aveva saputo assestare una pugnalata mortale al Commissario della polizia russa nell'uscire una notte in mezzo a una frotta di maschere dal teatro dell'opera: e così aveva creduto di vendicare il marito, il conte Vladimiro Polony, che i Russi avevan fatto morire sotto le verghe. Storie d'altri tempi e d'altri cuori, che sembrano leggende d'un altro mondo al nostro stanco quietismo; ma Flora che aveva letto questi casi in un opuscolo stampato a Parigi, dove la contessa Celina era morta in una dignitosa miseria, non poteva guardare in faccia alla scolorita immagine della nonna senza provare nel sangue un piccolo fremito d'orgoglio. Della antica grandezza di casa Polony non ora rimasta che quella cornice d'oro sbiadito, e una cassettina misteriosa che conteneva un pugnaletto sottilissimo e un piccolo guanto di