Col fuoco non si scherza. Emilio De Marchi

Col fuoco non si scherza - Emilio De Marchi


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era accaduto? la storia era ancora per Massimo piena di ombre e di mistero. Sul campo di battaglia il nostro ufficialetto si era comportato assai bene, Il Conte Polony era spirato nelle sue braccia e gli aveva raccomandato, morendo, Matilde e Flora; ma gli avvenimenti precipitosi che seguirono al disastro di Custoza sconvolsero tutti i suoi progetti. Scoppiata la rivoluzione in Sicilia, il suo reggimento fu mandato laggiù in un'ingrata guerra civile: poi per nove o dieci mesi si trovò confinato nel distretto di Caltanisetta, lontano da ogni comunicazione col mondo, in continue scaramuccie coi briganti.

      Qui lo raggiunsero le prime lettere di Matilde, che furono per il suo cuore il segnale di un nuovo disastro morale. Morto il colonello Polony, essa e la piccina avevano dovuto ritornare in casa del padre, il quale non poteva più provvedere a tutti. Il povero uomo in seguito a un errore commesso (che Massimo non potè mai conoscer bene) era stato costretto a chiedere il suo riposo, mentre si faceva sempre più vecchio e più esigente. Se Massimo non poteva mantenere la sua promessa, toglieva alla povera Vincenzina ogni altra occasione di ben collocarsi e di venir eventualmente in soccorso delle due famiglie. Già molte onorevoli richieste si erano presentate e altre se ne presentavano, a cui sarebbe stato imprevidenza nelle condizioni loro chiudere gli orecchi: ma Vincenzina si sentiva obbligata dalla sua parola. Il babbo Scellini reso querulo dalla sventura non cessava dal dire che le sue figliuole non avevan cuore per lui, che volevano lasciarlo morire di fame. Nel suo egoismo d'uomo gaudente e avido scriveva anche lui lettere indelicato al povero Massimo per voler sapere che conti si potevan fare sull'avvenire… Finchè Massimo, già coll'animo scoraggiato e affranto per le cose pubbliche, in un momento quasi di dispetto e di avvilimento, scrisse che egli lasciava libera Vincenzina di disporre della sua mano. Tre mesi dopo, mentre si trovava gravemente ammalato di scorbuto all'ospedale militare, suo fratello Camillo gli scriveva da Torino che intendeva dare una seconda madre al piccolo Ezio: e senza troppe parole annunziavagli il suo matrimonio con Vincenzina Stellini.

      Fu un colpo che per poco non lo trasse alla morte. La condotta di Vincenzina e de' parenti suoi gli parve un basso tradimento: quella di suo fratello iniqua. Come avesse potuto avvenir ciò egli non sapeva immaginare, ma confusamente sentiva che Vincenzina, presa tra due feroci egoismi, non aveva avuta la forza di resistere. A lei forse avrebbe potuto perdonare: ma Camillo, che conosceva i suoi bisogni e il suo cuore, quest'uomo che nell'alta sua posizione sociale poteva scegliere fra cento donne della più eletta aristocrazia, questo fratello che approfittava della debolezza di un fratello minore per sopraffarlo, ah no, questo Caino non era degno di perdono.

      Massimo non morì di quell'oltraggio, ma non volle che nessuno lo vedesse soffrire. Scrisse a Camillo quel che credeva necessario di scrivergli in forma alta e superba: non gli chiese nemmeno quel piccolo rendiconto dell'eredità paterna a cui aveva pur diritto: lo giudicò secondo i suoi meriti: e date le dimissioni, s'imbarcò sopra una nave inglese per la via dell'America. E non era più tornato da quel dì. Laggiù fece qualche fortuna in piccole imprese minerarie e il governo ebbe a servirsi di lui prima come console, poi gli conferì il grado di ambasciatore presso i piccoli Stati della Bolivia e della Venezuela. Unico filo che lo tenne legato al vecchio mondo fu l'amicizia di Cresti, col quale non cessò mai di corrispondere e che lo teneva periodicamente informato delle vicende grandi e piccole del suo emisfero. Quando Camillo Bagliani venne a morire, il Cresti fu il primo ad aprir trattative per una conciliazione.

      Morto l'uomo che era stato causa de' suoi mali, non ci era più motivo perchè egli si condannasse a un eterno esilio.

      Gli altri erano stati anch'essi vittima innocente delle circostanze. Il tempo seppellisce coi morti anche molti rancori vivi, mentre i vivi hanno bisogno di pace, di perdono, di soccorso.

      Fossero questi consigli o parlasse più forte nell'animo buono di Massimo un desiderio di rivedere il sole della sua patria e col sole qualche fiore non appassito del tutto delle sue memorie, finì col lasciarsi persuadere. Anche il suo cuore che era stato malmenato in tante battaglie e che aveva palpitazioni troppo frequenti, sperava di trovar quiete e vigore nell'aria nativa. Tornò, si lasciò condurre dal vecchio Cresti fino al Pioppino; ma sul punto di scendere a Villa Serena provava ancora qualche titubanza e una specie di sgomento, quale proverebbe un attore sul punto di uscire sulla scena a recitare una parte che non sa troppo bene.

      —Allora ci andremo domani—aveva detto e promesso; ma la notte prima non potò quasi dormire. Del passato non si doveva discorrere, s'intende; era bene incontrarsi come vecchie conoscenze che si fossero conosciute in illo tempore in qualche amena villeggiatura, d'accordo. Nè egli doveva ricordare i torti ricevuti, nè all'altra parte conveniva riandare parole e violenze che avevano nel tempo perduta ogni loro forza. La colpa era stata di tutti: forse di nessuno o di quel destino che non si sa che cosa sia. Ezio aveva trovato in Vincenzina una matrigna buona e indulgente, e in virtù di questo bene doveva essere più disposto a far verso lo zio un atto di tenerezza, che tenesse il luogo d'ogni altra riparazione. Egli, vecchio vagabondo, sentiva il bisogno di voler bene a qualcuno. Le miniere gli avevano procurato qualche vantaggio e non voleva buttare il suo ai cani: mentre questo figliuolo, questo Bagliani, per poco che sapesse fare col vecchio zio, avrebbe potuto cavargli il cuore.

      Questo pensiero d'un appoggio per l'avvenire gli aveva fatto parer dolce e ragionevole il ritorno: e poichè Cresti aveva delicatamente così ben preparato il terreno, era una sciochezza aver tutta quella sì grande paura, quasi che il rivedere la donna che si è amato inutilmente in gioventù, fosse come aprire una tomba.

      —Cresti ha ragione di dire ch'io son peggio d'un fanciullo. Che cosa posso ormai temere?

      Per non agitarsi troppo su questi pensieri, che gli toglievano il sonno, lesse qualche pagina della storia del Consolato e dell'Impero del Thiers, che insieme a qualche opera del Cantù e del Balbo formavano la biblioteca del Pioppino: e si addormentò nel bel mezzo della battaglia di Austerlitz.

      Il giorno dopo si fece la barba e si vestì nel miglior modo con quella compitezza tutta militare ch'era rimasta ne' suoi gusti anche in mezzo ai più crudi bisogni. E dopo colazione si lasciò condurre al convegno. La sua visita era stata annunciata da Cresti, che aveva in giuoco anche lui il suo interesse. Massimo s'era assunto di aprire le prime trattative di quell'atto, che doveva essere per l'amico il passo risolutivo di tutta la sua vita.

      —Donna Vincenzina—gli aveva detto il Cresti—vuol un gran bene a Flora e Flora sta volentieri a quel che dice la zia Vincenzina. Tu le devi chiedere prima di tutto quel che pensa di me, se gli sembro un uomo ragionevole o un pazzo. Se essa ci incoraggia, nessuno meglio di lei potrà fare il resto. Dille che io metto la mia vita nelle sue mani. Al punto a cui sono arrivato non posso più vivere di dubbi e di incertezze: meglio un bel colpo sul capo tutto in una volta che non questo morire a goccia a goccia.

      —Io farò del mio meglio, quantunque sia un ambasciatore in disponibilità.

      Per evitare il troppo sole seguirono un pezzo la stradicciuola alta in mezzo ai campi e uscirono sulla strada di Bolvedro, dove Cresti si fermò alla botteguccia d'un pasticciere a comperare un cartoccio di bocche di dama e di schiumette per le signore. Massimo andò avanti solo e alla prima ombra che trovò si fermò ad aspettare il compagno, seduto sull'orlo di un muricciuolo. Dai giardini veniva un buon profumo di erbe aromatiche. La montagna sparsa di casolari, divisa in quadratelli coltivati, nella piena luce del sole saliva a disegnarsi colla linea grossa delle sue creste sul fondo del cielo. Il lago mandava alla riva un'onda blanda, senza spume, in cui riflettevasi senza rompersi l'immagine di tre nuvolette bianche immobili sopra il San Primo.

      Massimo andava osservando queste cose sparse per non voler pensar troppo alla sua parte di attore pauroso: ma per quanto cercasse di uscir di sè, non poteva a meno di non rimasticare il suo monologo:—Non è lei che debba perdonare qualche cosa a me; piuttosto sono io che dovrei perdonarle di non aver avuto fiducia nelle mie forze: ma a che giova riandare quel che non può più tornare indietro? Il perdono è un vaso delicatissimo che è difficile tanto consegnare come ricevere bene. Meglio sarà non parlarne. Ma il tempo, il tempo che cosa avrà fatto di noi? Cresti dice che ella è ancora quella di prima, se non forse più bella: ma io non son più quello e stenterò a rientrare così rotondo come sono nella sottile immagine che forse ella conserva ancora di me. Dovrà ridere un poco vedendo quel che il tempo cava fuori da un brillante ufficiale di cavalleria, o, se


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