Della guerra nazionale d'insurrezione per bande, applicata all'Italia. Carlo Bianco

Della guerra nazionale d'insurrezione per bande, applicata all'Italia - Carlo Bianco


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confidenziali, una stretta momentanea dimestichezza fra di loro si stabiliva. Soventi volte, finite le militari incumbenze, una generale distribuzione di vino a sue spese, per lo squadrone ordinava, ed in un coi quasi brilli soldati un bicchiero ne tracannava allegramente, ma tosto dopo, alla consueta disciplinaria rigidità, faceva ritorno.

      Nel reggimento, dieci o dodici uffiziali esistevano, che avendo i loro gradi con lo spargimento di sangue, con patimenti, e con merito, e non per via di raggiro, viltà o privilegio acquistati, erano per disprezzo, uffiziali di fortuna denominati, per istituto nei gradi subalterni tenuti, senza speranza di poter mai essere neppure a quello di capitano, promossi; trattati con poco rispetto dai comandanti ed abborriti dal loro colleghi nobili, perchè come materia eterogenea, li consideravano; solo con un umile, e servile procedere potevano questi l'onore d'un benigno saluto di protezione, da quelli ottenere; non sofferendogli l'animo di vedersi di continuo, ingiustamente disprezzati, e di soli dover tutta la severità della disciplina sopportare, avendo d'altronde la coscienza di non aver altro demerito se non quello di esser nati plebei, egli pungeva il loro amor proprio, ed a rintuzzare gl'insulti e minacce degli orgogliosi loro compagni, gli stimolava, ogniqualvolta non potevano più contenere la piena del loro cuore contro qualcuno, davano sfogo alla loro collera, per la qual cosa continue risse ne provenivano, l'uffiziale di cui parliamo valevasi dell'amicizia, a lui professata d'ambidue i contendenti per barcheggiare in modo, da potersi nelle frequenti sfide, che di conseguente succedevano in neutralità mantenere, veniva egli per l'ordinario, dai due contrarj separatamente come padrino, o spettatore richiesto, e si serviva del suo ascendente, sempre chè le cose non erano spinte al punto di esigere imperiosamente lo spargimento di sangue, onde mettergli fra di loro in buona pace. Pranzava coi nobili, e quasi ogni sera cenava co' plebei; erasi con somma cura, l'affetto del colonello tirato a se, e così una decisa influenza morale sul corpo intiero degl'uffiziali, tacitamente possedeva. Della quale non menandone vanto, mai fugli da invidioso alcuno contrastata; se avveniva, che dal reggimento, a convito solenne, uffiziali d'altri corpi, o personaggi d'alto affare si onorassero, non potendo i nobili, da quello escludere i plebei, perchè pure erano uffiziali, non permettendo di pagar la loro parte ma invitandoli, come se stati fossero forestieri, li mortificavano, pungentissimo insulto, che coloro i quali avrebbero pagato il doppio ben volontieri per non ricevere quella cortesia, ad una apparente gratitudine obbligava. Tenevano i nobili al teatro un palco in comune dal quale erano esclusi i plebei, cui solo rimaneva, se volevano godere dello spettacolo, d'andarsi nella platea col publico a tramischiare; tutte queste ed altre simili cose di poco rilievo per se stesse; ma di continuo stimolanti, in piede permanente, la discordia tenevano. Temendo quell'uffiziale di doversi poi un bel giorno apertamente per una delle parti dichiarare, pensò di porvi convenevol riparo, epperciò di tanto, in tanto ambi i partiti, a casa sua, a festini, gozzoviglie, e divertimenti cortesemente invitava, ove in sul mangiare, ed in sul bere, e nel festeggiare, in lieta, e festevol brigata trovandosi tutti ad una avvinazzati, in precaria unione si mantenevano. Preso, per sè solo, oltre la sua porzione di quello con gli altri uffiziali, un palco in allogagione al teatro, in quello senza distinzione di schiatta, gli uffiziali tutti convitava, ed ogni sera, per maggiormente attirarli, faceva sì, che le più belle e vezzose ballerine, e cantanti andassero colà a visitarlo, e quindi fatta seralmente alla metà dell'opera di squisite vivande, e finissimi beveraggi una lieta cena imbandire, unitamente si banchettava; la qualità dei cibi, e la piacevolezza della compagnia, continua, e dilettosa rendeva la concorrenza serale; con questi ed altri tratti di tal fatta, fra i due partiti, senza per un dei due venire a dichiarazione, si regolava. Ma se di mantenere in apparenza l'unione gli conveniva; come quello, che sempre in favor della patria speculava, ei conosceva benissimo, che nel fatto questa sarebbe stata per essere nocevole al suo fine, perciocchè se i plebei si fossero della loro sorte contentati, sarebb'egli per avventura rimasto solo, e non avrebbe potuto all'occorrenza, sopra l'appoggio di alcuno, le sue speranze fondare. Per ciò evitare, e nel suo proponimento progredire, egli sotto pretesto di un qualche affare, come per caso, dal capo armajuolo del reggimento con frequenza si portava, dov'era informato, che quasi tutti gli uffiziali plebei malcontenti, alcuni dei più stimati sorgenti, e vecchi caporali, a pranzo, e a cena frequentemente attendevano; offerivangli quelli da sedere, e partecipare alla mensa; fattosi un pò pregare, egli sempre di sedersi a tavola al fine acconsentiva, ed in mezzo ai bicchieri, ed alle barzellette, senza lasciarsi dalla troppa volontà, a trascorrere in parole men che servili, trasportare, le quali il suo intendimento fuor di tempo palesassero, tutto attentamente udiva, ed al racconto dei maltrattamenti a che andavano quegli infelici soggetti, tema continuo della loro conversazione, leggermente sogghignava; dal vino, e dalle parole i commensali, riscaldati, prorompevano quindi in così veementi, e chiare invettive contro il mal governo del paese, e la condotta dei superiori, che una semplice delazione sarebbe stata sufficiente per accusarli, ed anche come convinti di trame sediziose, punirli. Allora vedendo quell'uffiziale, che trasportati dall'ira, avevano i termini del dovere trapassati, e giunti erano al punto di poter essere da una sola parola sua compiutamente rovinati, epperciò stare la loro sorte nelle sue mani, mezzo in ischerzo, e mezzo seriamente, prendeva la parola, ed alla pazienza esortavagli, loro diceva, che sotto un governo interamente assoluto come quello del Piemonte, gli uni, cioè i nobili, che circondano il trono col diritto di opprimere nascevano, e gli altri, per essere oppressi, cioè i plebei, che debbono servir di sgabello alla nobiltà; alla qual dura sentenza della sorte, non potendo l'uomo destinare il luogo dove nascere, e determinare previamente la classe a che vuole appartenere, forza gli era di sottomettersi, che in un stato così ristretto qual era il Piemonte, non si poteva un cambiamento vantaggioso al popolo per allora sperare, che per verità, era quegli in generale malcontento. Ma che può fare, diceva egli un solo popolo disordinato, contro tanti ben regolati guerrieri, i cui commandanti, come da quanto avete detto, appare, hanno particolare vantaggio a che il paese nell'oppressione si mantenga? Quindi loro consigliava la prudenza, e a non esporsi così favellando con alcun altro, inutilmente a severo castigo; soggiungendo che deplorava la loro triste condizione, e che della confidenza in lui riposta, facendolo così apertamente dei giusti motivi della loro afflizione partecipe, credevasi degno; i commensali allora lo ringraziavano, e cominciavano ad entrare nella discussione se si potesse, o no scuotere quel giogo, ei lasciavagli in quella internare, e col pegno in mano, di quanto già detto avevano, senza prendere ulterior parte, si alzava, e sortiva; ma sempre avveduto non gli perdeva più d'occhio nell'avvenire e tostocchè, o per istrada in parti remote, od in casa sua, od altrove, in uno di questi s'imbatteva, da solo a solo, sul soggetto della discussione passata, seriamente seco lui ragionava, facevagli toccar con mano, quanti e quali mezzi fossero alla loro disposizione; quanto facile fosse di riescire nella causa popolare, se l'esercito a favore di quella si dichiarasse; insinuando la vera gloria di un militare che abbia a schifo d'essere salariato sicario di un despota, nell'impugnar le armi per la patria, consistere, per solo vantaggio di quella, e non pei capricci d'un uomo, per un malinteso onore, o credula brama di conquiste, esser cosa gloriosa di sguainar la spada; e così sui mezzi possibili di muoversi a danno degl'oppressori, si dilungava, e quando l'altro scorgeva a tutto intraprendere, persuaso, e deciso, coglieva il momento opportuno, e con un giuramento terribile, di seguirlo ed obbedirlo in ogni dove, cosa, e momento, se avvenisse un giorno, che la liberazione d'Italia si tentasse, tenevalo legato, e dai suoi cenni dipendente. Per tal modo senza mai correre il pericolo di essere scoperto, continuamente inaspriti, ed a lui devoti manteneva gli uomini cui favellava.

      Incaricato un giorno dalla congrega segreta, di far affiggere in tutti gli angoli della città dove si trovava, un proclama, col quale i Piemontesi all'armi in favor d'Italia si chiamavano; giorno precisamente in che trovavasi il re di passaggio andando a Genova, e doveva in città alla mattina di buon ora, fare il suo solenne ingresso, sparse il nostro uffiziale nel corso della notte, una quantità di quei scritti nei quartieri, un'altra sugli angoli principali della città, prima delle quattro del mattino ne affisse; trovossi alle cinque, ora della riunione del reggimento, al suo posto, per andare all'incontro del re, e come, nel rendersi al luogo di riunione, passa davanti un angolo, dove uno di quei proclami stava da lui stesso previamente affisso e molti vede a leggerlo, intenti, egli si stacca dalla testa del suo squadrone, dà una occhiata allo scritto, dimostra somma meraviglia, lo strappa e se lo prende. Tosto che sulla piazza d'armi vede il colonnello comparire, spicca il suo cavallo al galoppo e gli presenta il proclama, dicendogli, ch'essere il suo dovere credeva di rimettergli quella carta, affinchè nella sua saviezza, quelle misure, e disposizioni ordinasse le più atte


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