La disfatta. Alfredo Oriani

La disfatta - Alfredo Oriani


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giuocare.

      —Soffrendo molto, l'uomo arriva a comprendere la necessità del dolore,—intervenne questi.—Vedete la schiavitù, questa fase inevitabile della educazione: bisognava che il padrone, a forza di frugare nello schiavo, vi ritrovasse una coscienza invincibile, e che questi, resistendo, gli desse la vera misura delle forze umane. L'uomo non si è educato altrimenti. Ho visto sui mercati dell'Africa centrale tutti gli schiavi rassegnati, quasi indifferenti alla loro sorte; è la prima tappa.

      —Solo il cristianesimo potrà redimerli,—disse la contessa Ginevra.

      Ma il dottore protestò:

      —E coloro che saranno morti prima di questa redenzione?

      —Saranno morti come tutti gli altri, secondo i disegni di Dio,—ribattè la contessa Maria alzando la sua faccia quasi maschile, dalla quale trapelava un raggio dell'anima.—Dinanzi a lui siamo tutti egualmente colpevoli, ma quelli lo sono meno, senza dubbio, ai quali non ha voluto rivelarsi.

      —La fede, la fede….—mormorò il dottore non convinto.

      —Quella che voi trovate in tutti i moribondi,—disse finalmente Giorgi.—Haydn pregava prima di scrivere; ecco perchè il mondo crederà sempre alla sua musica.

      La contessa Ginevra, che faceva la calza lentamente, mentre la contessa Maria andava in fretta come un piccolo telaio, osservò improvvisamente:

      —Anche De Nittis tarda stasera.

      Aveva appena pronunciate queste parole, che De Nittis entrò: tutti gli si volsero col viso come illuminato, ma egli non strinse la mano che alla contessa Ginevra.

      —Bice?—chiese premurosamente.

      —È nella sua camera.

      —Lamberto è venuto da me.

      —Tornato da Roma!—gridò quasi il dottore, alzandosi.

      Giorgi e Prinetti avevano circondato De Nittis, la contessa Maria smise d'incrociare i ferri.

      —Mi ha lasciato ora: domani verrà da Bice.

      —Che cosa vi ha detto?—domandò la contessa Ginevra.

      De Nittis sorrise:

      —Voi lo sapete, senza dubbio, quanto me; il ragazzo ha trovato più di un nobile accento.

      Il dottore si volse trionfante.

      —Suonate, Giorgi, che portino il thè.

      —Tu,—disse De Nittis al dottore,—va a chiamare Bice.

      Questi rimase impacciato, ma tutti approvarono la scelta; il dottore colla sua affettuosa rudezza era forse il più amato da Bice.

      —Le dico solo che sei arrivato.

      De Nittis, sempre freddoloso, si era già appressato al camino, volgendovi la schiena ed alzando un piede verso la fiamma. Era vestito di nero, come al solito, con un soprabito quasi attillato, entro al quale il suo corpo, ancora elegante di tutte le proporzioni della giovinezza, si muoveva disinvoltamente. Ma la sua testa troppo grossa, sebbene i capelli bianchi, corti e pettinati con cura, non ne aumentassero la cornice, appariva non meno ammirabile nella altezza della fronte che nella vivacità del colorito quasi roseo, col volto tutto rasato all'inglese, due piccole fedine sotto le orecchie, e una bocca quasi fresca.

      Anch'egli, come Prinetti, portava sempre la cravatta bianca, ma con un corpetto meno aperto e il colletto dritto, forse per nascondere le prime rughe del collo, per una di quelle civetterie quasi inconsapevoli nei vecchi rimasti belli; e la sua fisonomia, di una signorilità regale, se i re fossero davvero secondo l'antica cavalleresca definizione primi fra i signori, prendeva facilmente, appena la fronte gli si spianasse, quella espressione di calma monastica, di serena contemplazione, che solo la lunga abitudine del pensiero arriva ad imprimere.

      —Roberto,—gli disse Prinetti,—ecco le sigarette per te: sono arrivate oggi da Costantinopoli.

      —Davvero genuine!—esclamò l'altro, leggendone la scritta in caratteri turchi sul pacchetto a colori, mentre colle mani, belle quasi quanto quelle della contessa Ginevra, lo rigirava bambinescamente, prima d'aprirlo.

      —Bice fumerà la prima.

      —Lo credete?—chiesero tutti.

      —Bisognerà bene che acconsenta, se dovrò accettare da lei la mia tazza di thè.

      Il dottore tornò solo.

      —Ora viene.

      Un cameriere vestito di scuro, senza alcun distintivo di livrea, recò il servizio da thè; lo depose sopra uno dei tavoli a muro, fra due vasi di bronzo, e si ritirò mutamente. La fiammella dello spirito, cilestrina, tremolava nella penombra, mentre i ferri della contessa Maria martellavano sempre collo stesso ritmo affrettato nel silenzio del salotto.

      Bice entrò.

      Era solamente un po' più pallida delle altre sere.

      Il suo abito di casimiro grigio, stretto su tutta la persona, ma così pesante che ella sembrava portarlo a stento, sebbene colla coda toccasse appena il tappeto, non aveva alcun ornamento: solo un piccolo fermaglio antico di acciaio, lavorato come una trina, vi brillava al colletto dritto e molto basso, malgrado la eccessiva lunghezza del collo. Anzi, per una di quelle profonde intuizioni artistiche che talvolta le donne hanno di sè medesime, invece di nascondere la propria magrezza, ella sembrava affettarla; l'abito le disegnava tutto il busto, colla schiena già piegata sotto il peso della testina dolorosa, e la sporgenza quasi mostruosa delle anche, al disopra delle quali il petto le rientrava nel dosso. Si era inoltrata adagio, colla testa lievemente china sulla spalla sinistra, facendo come una macchia nell'ombra del salotto col volto bianco. I capelli di un nero corvino, pettinati alti sulla fronte, accrescevano ancora l'aria imperiosa del suo volto, con quel gran naso aquilino fra le sopracciglia sottili e lievemente corrugate: però una fossetta sul mento metteva una grazia di bambina nel sorriso del suo saluto. Solo le sue orecchie ceree, piuttosto grandi, facevano una triste impressione.

      —Buona sera,—disse colla sua voce appannata, di una dolcezza penetrante.

      Tutti le vennero incontro; si capiva che avrebbero voluto parlare, ma la sapevano troppo intelligente per arrischiare una parola inutile. Ella stese a De Nittis la mano gelata.

      —È più freddo stasera.

      —Scaldati dunque anche tu, prima di farci il thè,—esclamò il dottore, che avendole afferrato l'altra mano, gliela stringeva fra le proprie; quindi le trasse la poltroncina rosea più accanto al fuoco.

      —Mettiti qui.

      —Prima faccio il thè.

      —Niente, signorina; quando ho ordinato una cosa, deve essere, altrimenti cambiate medico.

      —Preferirei di cambiare malattia.

      —Ti converrebbe prima mutare di testa: Guillotin, il più umanitario fra noi medici, non è arrivato che ad inventare una macchina per tagliarle.

      La contessa Maria si volse alla risata di tutti: aveva già tratto dal sacco del lavoro un piccolo astuccio, e le si avvicinò aprendolo. Tutti si appressarono per vedere. Era una medaglia d'oro, una madonnina di un grande artista sconosciuto.

      —Oh!—disse Bice,—quale meraviglia!

      —È miracolosa?—domandò sardonicamente il dottore, che quella sera cercava tutti i modi per divertire Bice.

      —Come arte, senza dubbio,—rispose De Nittis.

      —È stata benedetta sull'altare del Santo Sepolcro a Gerusalemme,—soggiunse la contessa Maria.—Era della mia povera mamma: ho voluto dartela stasera, perchè tu la porti sempre per amore di lei.

      Bice gettò le braccia al collo della contessa, reprimendo un singhiozzo.

      La contessa Ginevra, Prinetti e Giorgi erano tornati prudentemente alle loro sedie per non aumentare


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