La disfatta. Alfredo Oriani

La disfatta - Alfredo Oriani


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      —Vi dico,—egli replicò, dopo una pausa,—che non si ammalerà. Perchè si ammalerebbe? Ella non ama Lamberto.

      —Non ama Lamberto!—proruppe Giorgi.

      —E perchè?—chiese De Nittis fissando sul dottore uno sguardo luminoso.

      —Perchè?! Essa è troppo anemica per amare davvero un giovane così bello e robusto.

      A questa osservazione, terribile nella sua semplicità scientifica, nessuno rispose. Poco dopo il dottore, andandosene con De Nittis, passò nella camera di Bice.

      Ella aveva ubbidito, era a letto. Invece di tastarle il polso, egli le pose carezzevolmente una mano sulla fronte.

      —Ho detto a Rosa che domattina vi prepari la polenta cogli uccelletti: ho indovinato?—gli domandò due volte sorridendo.

      Bice aveva sul cuscino un magnifico gatto, con la testa quasi più grossa della sua, e due grandi occhi chiari.

      —Almeno non leggere;—egli le rispose brontolando.

      E uscì, dopo averle rimboccato la punta delle coperte sotto il capezzale.

       Indice

      La mattina a colazione Bice pareva più calma. Nullameno il suo pallore aveva quei toni cerei, che fanno quasi dubitare della presenza del sangue, dando alla pelle l'apparenza di una cosa morta. Invece il dottore, sempre in piedi per tempissimo, e a quell'ora già collo stomaco alacre, divorava ogni cosa con appetito giovanile cercando d'incitarla; poi era venuta anche la contessa Ghigi per condurlo da una sua protetta povera.

      Quella mattina Ambrosi era di buon umore, giacchè solamente a sera, dopo aver girato ed altercato cogli infermi della sua vasta clientela, lo riprendeva una stanchezza irritata della vita.

      Nessuno aveva ancora fatto la più piccola allusione alla visita del tenente Lamberto volendo, per una squisita raffinatezza, lasciare più libera Bice in quella suprema decisione della sua vita. Anche la vecchia Rosa, sempre colla solita cuffia e quel fazzolettone sulle spalle, mangiava coi padroni.

      A tavola serviva un altro cameriere, attempato, corretto nei modi, senza quella affettazione dei domestici di grandi case, che pare un complimento imposto alla loro servilità verso l'importanza dei signori.

      Le due dame parlavano vivamente di un'impresa, che le preoccupava da lungo tempo: l'idea era stata della contessa Ginevra, ma senza l'aiuto dell'amica non vi si sarebbe mai accinta. Si trattava di una casa, nella quale accogliere i bambini, che le mamme operaie sono costrette ad abbandonare nel giorno, andando al lavoro; occorreva quindi un buon numero di brave donne, ed alcune fra esse al caso di fare da balie, per custodire ed allattare i piccini nella giornata. Al momento, da casa avrebbe servito una delle molte, che la contessa Ginevra possedeva nella città; ma la somma per adattarla a tale uso, e per pagare le spese vive di esercizio, mancava, giacchè si sarebbero dovuti nutrire ad un tempo i bambini e le sorveglianti. Di notte lo stabilimento resterebbe chiuso.

      Il problema maggiore era però, se le mamme avessero o no a versare una minima quota giornaliera per bambino: la contessa Maria avrebbe preferito una beneficenza compiuta, l'altra con intenzioni più moderne sosteneva, che non si dovesse esonerarle anche da tale piccolo sacrificio per non diminuire in esse il già scarso sentimento della responsabilità materna.

      La loro discussione si accalorava, senza che il dottore, incredulo in fatto di beneficenza, mostrasse di interessarvisi; ma siccome Bice era ricaduta in un silenzio inquietante, le due signore si arrestarono. Il dottore s'impazientò: uso ad attaccare sempre di fronte malattie e malati credette bene di eccitare Bice.

      —A che ora verrà il tenente Lamberto?

      La contessa Ginevra gli fece un cenno inutile.

      —Alle due.

      —Va benissimo.

      Ella lo guardò curiosamente.

      —Questa notte dormirai, ecco tutto, o io sono più bestia che medico: il caso è frequente nella nostra professione.

      —Voi dunque sapete quello che risponderò?

      —Te lo dirò stasera, prima che tu mi racconti la cosa: vedrai se ho indovinato.

      La ragazza guardò la zia Ginevra e la contessa Maria, quasi interrogandole se fossero anch'esse della medesima opinione.

      Un sentimento di rivolta le saliva dal cuore a vedersi così prevenuta nella decisione suprema della propria vita, ma sui loro volti affettuosi non scorse che una preoccupazione repressa: Bice indovinò che temevano una risoluzione contraria a quella del dottore.

      —Dottore,—disse Bice appoggiando un gomito sulla tavola ed abbandonando la testa sulla palma della mano,—checchè avvenga mi darete sempre la vostra approvazione?

      —Sì,—egli rispose francamente.

      Non parlarono più.

      Il dottore, accorgendosi di aver fatto tardi a tavola, si alzò bruscamente, ma dovette promettere alla contessa Maria di lasciarsi trovare alle tre nella solita farmacia; ella passerebbe a prenderlo colla carrozza per accompagnarlo dalla sua nuova protetta, un caso straziante, forse irrimediabile. La contessa Ginevra doveva fare delle visite.

      —Vuoi che resti teco?—chiese a Bice cingendole con un braccio l'esile vita, e baciandola sulla fronte.

      —No, zia, andate pure.

      La contessa era indecisa; un'onda d'affetto le traboccò dal cuore.

      —Oh, Bice mia, sii forte!

      Quando tutti se ne furono andati, ella tornò con Rosa nel proprio appartamentino, e si fece vestire. Malgrado la sua sgraziata figura, Bice era sempre di una eleganza tanto più squisita che non ne traspariva alcuna civetteria; laonde molti dicevano che vestiva all'inglese per satireggiare con questa parola male appropriata la severità delle sue stoffe e l'indifferenza colla quale le portava. Appena le due cameriere ebbero finito, sotto la sorveglianza della vecchia Rosa, che non parlava mai, Bice passò nel proprio gabinetto, uno stanzino parato di arazzi moderni, con soggetti quasi tutti derivati dai romanzi di Walter Scott, e si fece portare il piccolo telaio, sul quale ricamava da due mesi, nei momenti d'ozio, un manipolo per il curato della sua villa. La vecchia Rosa seduta presso di lei, facendo automaticamente la calza, l'osservava tratto tratto con ansiosa acutezza. L'altra avrebbe voluto parere calma, ma le mani sottili e ceree le tremavano involontariamente fuori dei piccoli merletti delle maniche, mentre quell'abito di velluto azzurrognolo smorto, con certe vivezze improvvise che parevano brividi, rendeva anche più inquietante il suo pallore.

      —Rosa,—mormorò respingendo il telaio,—nessun di loro ha voluto dirmi nulla: che cosa debbo fare? Perchè non mi hanno consigliata?

      —Il professore ti ha pur detto di riceverlo.

      —Ma non ha detto nulla di più.

      La vecchia si lasciò cadere nel grembo i ferri colla calza e, passando le mani sugli occhi di Bice, glieli chiuse carezzevolmente.

      —Gli vuoi bene?—si chinò a susurrarle nell'orecchio.

      Ma l'altra invece le domandò:

      —Perchè non soffro di più, mentre la mamma ha potuto morire di amore?

      Stettero un altro pezzo in silenzio. La vecchia, colla testa della fanciulla sulle ginocchia, la contemplava con una adorazione atterrita: ella vedeva nei suoi occhi azzurri le stesse piccole fiamme, che già avvampavano negli occhi della madre bruciandole il cuore tanto presto. Bice era in preda ad un orgasmo indefinibile.

      —Rosa!—domandò nuovamente:—dopo te, chi mi vuol più bene?

      La vecchia non esitò un istante:

      —Il dottore.


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