La disfatta. Alfredo Oriani

La disfatta - Alfredo Oriani


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indietreggiò di qualche passo: pareva ad entrambi impossibile di lasciarsi così, ma nullameno avevano finito, non trovavano più altra parola. Non si erano nemmeno dati la mano.

      Egli, sempre più piccato, fece un inchino contegnoso sull'uscio, ma allora Bice pentita della propria durezza gli corse dietro, lo raggiunse nell'anticamera, traversandola rapidamente per entrare nell'appartamento della zia, e gli tese la mano.

      —Addio,—mormorò con un accento, sul quale era impossibile ingannarsi.

      Ma entrando nel solito gabinetto di conversazione dovette sedersi per resistere alla emozione, che la soffocava: adesso le pareva di sentirsi più grande nella libertà del nuovo abbandono, dopo quella suprema abdicazione alla vita mondana, nella quale Lamberto avrebbe dovuto introdurla. Dopo avere per tanti anni creduto di amarlo con una passione di orfanella, la più intensa e dolorosa fra tutte, era sorpresa della propria pace fredda, mentre i nervi le fremevano ancora, e gli occhi le battevano dalla voglia di piangere. Era dunque questo il grande dolore aspettato? Poi un'ultima reazione la risospinse.

      Suonò il campanello.

      —Andrea,—disse al cameriere:—Rosa deve essere stanca, accompagnatemi voi.

      Si riabbassò il velo sul volto ed uscì. Il vento si era fatto anche più rigido. Ella camminava in fretta, ascoltandosi dietro il passo del domestico, senza badare alla folla più rumorosa in quell'ora del passeggio, sotto i portici di Santo Stefano; quindi piegò per via Remorsella, verso la casa De Nittis. Secondo le sue abitudini, il professore doveva essere rientrato dopo la lezione delle due pomeridiane.

      —Voi! Bice!—egli esclamò meravigliato, vedendola entrare colla grossa Margherita.

      Nello studio il caldo della stufa era quasi insopportabile.

      —Si cavi la pelliccia, signorina,—diceva la governante del professore.

      Bice le sorrise: quella vasta stanza, calma e severa, le aveva subito dato un senso di gioia. Le pareti erano interamente nascoste da alti scaffali pieni di libri; in fondo, presso la finestra senza tende, che lasciava entrare tutta la luce della strada, lo scrittoio del professore spariva quasi sotto mucchi di fascicoli e di volumi, mentre egli, sempre così ben pettinato, vestito di nero, signorilmente elegante, stava seduto sopra un'antica poltrona in cuoio giallo, a spalliera alta e dritta.

      —Che cosa avete?—le domandò premuroso tirandosela vicino.

      Ella tardò invece a rispondere, ma il suo viso era così tranquillo che

       De Nittis non le ripetè la domanda.

      —È la grande opera?—ella chiese indicandogli un mucchietto di fascicoli a copertine rosee.

      —La mia grande opera!—ribattè con un sorriso d'ironia,—quella che forse non finirò.

      Bice ne prese un fascicolo, ma non potendo ancora star ferma, andò alla finestra per leggerne qualche riga.

      —Ah!—esclamò,—è un latino che capisco anch'io.—Dominus, pars haereditatis meae et calicis mei: tu es qui restitues haereditatem meam mihi.—È una citazione di Rénan; come sarà bella! Quindi proseguì leggendo ad alta voce: Ah! que je frapperais volontiers ma poitrine si j'éspérais entendre cette voix chérie, qui autrefois me faisait tressaillir. Mais non, il n'y a que l'inflexible nature: quand je cherche ton oeil de père je ne trouve que l'orbite vide et sans fond de l'infini, quand je cherche ton front céleste je vais me heurter contre la voûte de airain, qui me renvoie froidement mon amour. Adieu donc, ò Dieu de ma jeunesse! Peut-être tu seras celui de mon lit de mort. Adieu: quoique tu m'aies trompé, je t'aime encore!

      Ella aveva letto modulando le frasi, ma alle ultime parole si arrestò. Quel perdono superbo e malinconico, che l'anima umana, ingannata in tutte le proprie dolorose ricerche, gettava morente per l'infinito verso Dio, le fece vibrare tutte le fibre del cuore ancora agitato da quell'ultimo abbandono.

      De Nittis si era alzato per venire a leggere sul manoscritto al disopra delle sue spalle.

      —Ditemelo voi, è una bestemmia quest'ultimo grido di Rénan?—gli si volse con voce commossa.

      —No, Bice, è il principio di una nuova preghiera: l'uomo perdonando a Dio di non esserglisi voluto rivelare, afferma così l'amore al disopra della fede. E voi avete perdonato a Lamberto?

      —Sì.

      —Come vi siete lasciati?

      —Amici.

      —Tu non l'ami dunque più?

      Egli le aveva preso le mani, la sua voce era quasi severa.

      —Nemmeno egli può amarmi.

      Bice tornò a deporre il manoscritto sulla scrivania, e si rimise la pelliccia per uscire. De Nittis pensieroso si accostò per aiutarla. Ella lo lasciò fare, provando una dolce contentezza a sentirsi stringere da lui la pelliccia sul corpicino così bisognoso di riguardi, mentre una luce tremula le rideva negli occhi. De Nittis si attardava.

      —Ho voluto dirlo a voi per il primo,—mormorò salutandolo graziosamente col capo:—verrete stasera?

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