No. Alfredo Oriani

No - Alfredo Oriani


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       Alfredo Oriani

      No

      Romanzo

      Pubblicato da Good Press, 2020

       [email protected]

      EAN 4064066070175

       I.

       II.

       III.

       IV.

       V.

       VI.

       I.

       II.

       III.

       IV.

       V.

       VI.

       I.

       II.

       III.

       IV.

       V.

       VI.

       Indice

      —Il dottore era questa notte colla Giovanna,—disse la Ghita.

      Ida non si mosse.

      —Ci vuole proprio il coraggio di un dottore; già, sono come i beccai, che ammazzano i vivi e sparano i morti. Anche sabato lo incontrai, che ritornava dal camposanto; aveva aperto Tonio. Erano dietro il vicolo dei Cappuccini: la ho riconosciuta, deve essere in ultimo.

      In quella un magnifico gatto, nero come di onice, con una fettuccia rossa per collarino, entrando dalla porta socchiusa della cucina venne a saltare sulle ginocchia di Ida, e vi si allungò non senza tentare e ritentare prima mille pose. Stette così qualche secondo, poi avvallandole nelle sottane, e battendogliele carezzevolmente colla coda grossa come una coda di volpe, ne accompagnava ogni movimento con una voluttuosa trepidazione di orecchi.

      Le due donne si distrassero un istante ad osservare il lascivo benessere del bell'animale, e la Ghita proseguì:

      —La può fare quello che vuole, ma non la sposerà, lei.

      —Lei chi?—proruppe la fanciulla schizzando dagli occhi un baleno.

      —Lei, la Giovanna. Io non lo guarderei più in faccia un uomo, che dopo mi facesse un simile tiro e mi cacciasse di casa; ma il buono era di non guardarlo prima, allora. In ogni modo le darà venti scudi, metteranno il bambino all'ospedale, e chi si è visto si è visto; ci vedremo al secondo.

      —Badate, avete fretta,—disse l'altra.

      —Lo so, vado a tirar l'acqua.

      —Anzi, ricordatevi la catinella per il bagno di questa notte.

      —Già, già,—mormorò con crescente malumore, voltandole le spalle:—il bagno prima di andare a letto! Può fare quello che vuole, ma avrà da fare un bel pezzo prima di avere la pelle bianca: c'è della tela che si rompe prima.

      Ida era rimasta alla finestra, con una mano accarezzando la grossa testa del gatto, lo sguardo incantato al di fuori. Intese il tinnìo vibrato dei secchi, che si urtavano nella camicia del pozzo, lo stridere lamentoso della carrucola, l'urlo del catenaccio al chiudersi della finestruola: quindi la Ghita ripassò nella cucina con passo lento ed affaticato per riempire la catinella su al piano superiore, ridiscese e tirò ancora due secchi d'acqua. Le sue scarpe grosse, guernite di chiodi montanari, risuonavano sul pavimento col rumore degli zoccoli da conciapelle, mentre sotto la gonnella rattratta sui fianchi le si scoprivano due stinchi grossi, nudi, di un colore incerto e di una disgustosa evidenza. Ida gettò un'occhiata a quei piedi sformati dal lavoro e dagli anni, e raddrizzando lo sguardo parve non accorgersi di altro.

      La sera calava lenta e buia. Gli alberi, nudi sulla altura di contro, lasciavano ancora cadere qualche foglia morta sul terreno, dove tante altre foglie morte erano già cadute; il cielo non si vedeva, ma doveva essere fosco, senza malinconia e senza infinito, uno di quei cieli autunnali, che paiono partecipare della miseria e della volgarità della terra. Nella cucina gli oggetti si discernevano appena. Le pareti imbrunite dal fumo e dalla sudiceria sembravano divorare la poca luce della finestra; negli angoli del muro aperto dalla finestra la tenebra si ammucchiava; la madia non era più che un'ombra più nera, coi contorni meno indecisi, e sovra essa i candelieri, mutandola quasi in un altare, lottavano ancora colla invadente oscurità ad aurati e cangevoli sorrisi. Più in alto, in giro, nella parete di contro al camino, gli utensili di rame allineati scrupolosamente accendevano alla fiammella del focolare qualche largo riverbero, che si risolveva in una tenebria più densa, mentre una torma subitanea di scintille, infilando tratto tratto la bocca spalancata del camino, scompariva mutamente.

      La cucina aveva un povero aspetto malgrado quel buio. I rintocchi dell'avemaria palpitarono lontani, e non riscossero la fanciulla.

      Stava seduta, il gomito sul davanzale, e il gatto sulle ginocchia. Il breve cortile della casa, chiuso da una funebre siepe di mortella qua e là rattrappita dalla vecchiaia, era ancora più triste della cucina e più fosco del paesaggio vespertino. Un fico sciancato e brullo batteva con un braccio alla finestra come un mendicante, un altro più discosto e più povero si appoggiava al muro o ne sporgeva; il terreno era pesto, ignudo, se non se in un canto un cespo di ortiche, presso un mucchio di cenere bollita, grigie della polvere muffosa caduta dall'intonaco, aggiungevano la tetraggine di un altro verde al verde cupo della mortella.

      La fanciulla sospirò.

      —Dorme?—chiese alla Ghita.

      —Sono passata per la camera in punta di piedi, e non si è destata nemmeno al rumore dei secchi. Poveretta! almeno adesso dorme.

      —Vuoi andartene?

      —Se non c'è più nulla da fare.

      Ida andò alla madia, ne alzò il coperchio, che rattenne sopra una spalla, trasse un grosso pane, un formaggio di pecora ed un coltello. La Ghita, poichè si trattava della cena, si era appressata premurosamente, e girava gli occhi dal coltello al formaggio coll'ansietà male dissimulata della povera gente, la quale sa purtroppo come sia facile tagliare


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