No. Alfredo Oriani

No - Alfredo Oriani


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i muri più lebbrosi; il fico curvava sempre i rami, simili a una capanna sfrondata, sopra la panchina del muro.

      Ida ne guardò lungamente le lastre di fiume, nerognole e pulite; il muro della casa faceva loro da spalliera, l'aria era tiepida. La fanciulla aveva in tasca una piccola edizione di Leopardi, aperse la porta ed uscì. Ma sebbene l'alito del vento fosse caldo, la terra, i muri della casa, i rami del fico, i sassi della panchina, l'ombra del cortile trasudavano una frescura, che penetrava carezzevolmente la fanciulla. Il pallore le si faceva più opaco, mentre i muscoli le si irrobustivano nei primi brividi dell'irrigidimento, e di sotto alle vesti, attraverso alle vesti, un refrigerio gelato le si insinuava nelle vene a purificarle il sangue troppo ardente. Un ronzio insensibile aliava fra le foglioline della mortella, lucenti all'azzurro del cielo e incoronanti come di sorrisi l'astiosa lividezza delle ortiche; la terra alitava il proprio profumo, e persino la buca delle felci, in quel canto, sembrava soffocare ogni disgustosa fiatosità sotto uno strato polveroso di spazzature.

      La fanciulla era così immersa nella propria lettura, che non udì un passo di cavallo scendere verso il cortile per quel sentiero nascosto e fermarsi ad un vano della siepe. Cavallo e cavaliere guardavano verso di lei, ma la testa dell'animale, leggiera e piena di fuoco, sarebbe parsa anche ai meno intelligenti assai più bella della testa dell'uomo. Il quale, aspettandosi ad ogni momento di essere sorpreso in quella sorpresa, sembrava prepararsi già alla difficoltà dei primi complimenti, colle labbra contratte ad un sorriso di bonomia e lo sguardo acceso da una passione sanguigna, appena frenata da una confusa coscienza d'inferiorità. Ma questa grave preoccupazione non gli correggeva nè la posa sgarbata di cavallerizzo montanaro, nè l'atteggiamento anche peggiore del cappello nero, a larghe tese, rigettato sulla nuca e calcato sugli orecchi, così che la sua testa già volgare diventava quasi ignobile.

      Senonchè il cavallo rattenuto nella scesa, sopportando gran parte del proprio peso e tutto l'altro del padrone sulle gambe davanti, alzò una zampa ed urtò in un sasso. A quella percossa la fanciulla alzò il capo, e trasalì impercettibilmente.

      —Buon giorno,—disse.

      —Buon giorno,—rispose l'altro, cavandosi il cappello e frenando il cavallo che saliva per il vano della siepe.

      —Turno!—esclamò Ida, guardando con ammirazione il bel cavallo maremmano:—Lo lasci entrare.

      —Ritorno adesso dalla Roccaccia, c'è la vecchia fattoressa che sta male. Ih! me ne ha quasi fatta una delle sue, stamattina, Turno. Ha troppo sangue, fortuna che è buono quanto un agnello, altrimenti ci sarebbe da accopparsi con questo ragazzaccio. Non ha che sei anni, ed è di una razza, che sono tutti più o meno mal sicuri; forti, ma mal sicuri.

      E si fermò a mezzo, indovinando nell'occhio della fanciulla un sorriso d'ironia.

      Ma la fanciulla accarezzava già colla mano libera il muso della bestia, la quale, usa alle pallottole di zucchero, gliela lambiva colle lunghe labbra nere.

      —Non l'ho, ghiottone,—gli ripeteva percotendolo amabilmente sulle narici, senza occuparsi del cavaliere.

      Questi sentì finalmente la goffaggine del proprio imbarazzo, e le chiese della mamma.

      —Avrei potuto visitarla ora.

      —In questo momento è forse di già desta.

      Egli scese pesantemente, si accomodò senza un pensiero della fanciulla i calzoni, rattrattiglisi all'inforcatura dal cavalcare, si stirò le gambe, e legate con un nodo da contadino le redini alla inferriata:

      —E fermi!—proruppe, abbassando sulla groppa di Turno, che s'impennò, la bacchettina di siepe, che gli serviva di scudiscio. La fanciulla ebbe appena il tempo di cansarsi, e ritornò alla panchina.

      —Come stanca l'andare a cavallo!—egli disse sedendosi. Ida gli gettò uno sguardo. Il dottore era sempre così impacciato, coi gomiti sulle ginocchia e gli occhi alle punte delle scarpe, come per leggervi le parole; taceva. Poi le sbirciò la testa abbandonata sul muro, e correndole indiscretamente cogli occhi dal seno, ancor più gonfio in quell'atteggiamento, su tutte le forme, le risalì d'improvviso al volto. Ida guardava nel vuoto. Allora si sentì coraggioso; le posò la mano sulle mani in grembo, e, pigliandole il libro, ne esaminò il titolo.

      —È di una tristezza! Lo leggeva da studente. Però è stato un grand'uomo.

      —Lo dicono.

      —Non ne sarebbe persuasa? capisco che lei studia.

      —Grande!—replicò la fanciulla coll'accento altero di chi sa di essere incalcolabilmente superiore nella discussione e pretende di avere bene approfondito il proprio soggetto.

      Quindi raccogliendosi seco stessa in un'altra meditazione, si avventò contro Leopardi. Lo aveva sempre giudicato antipatico, troppo più piccolo della propria gloria. Egli aveva negato quanto non gli era toccato, l'amore, la virtù, la gloria, ma rimpiangendole quali la gente le desidera, pronto a venerarle incontrandole per caso. La sua negazione valeva l'affermazione degli altri, due volgarità. Come i pittori greci dipingevano solamente con quattro colori, egli aveva appena due o tre note; de' suoi tempi e de' suoi contemporanei non aveva conosciuto che Nerina e Silvia, due ragazze da nulla. La sua infelicità tanto vantata non era più niente paragonandola con quelle di Manfredi e di Faust, poichè l'uomo che si lamentava in Leopardi era l'uomo di tutti i secoli, infastidito delle miserie ordinarie della vita; mentre l'uomo di Byron e di Goethe era del nostro tempo, un sovrano annoiato di tutti i piaceri, un dio nauseato della propria potenza, che sentendosi più piccolo della propria creazione avrebbe voluto nel medesimo tempo distruggerla, e non rimanere quindi solo. Ma la fanciulla, che come Manfredi credeva di avere riportato dal fondo della vita il sentimento della doppia impossibilità di vivere e di morire, si imbrogliava seco stessa in questa muta e violenta analisi; quindi per liberarsene scoppiò improvvisamente a dire:

      —Non ha humour, guardate i Paralipomeni; non ha lirica, leggete la Ginestra, prosa poetica e non filosofica; non ha passione, passione vera, prepotente, esaminate il Consalvo, sentimentalismo clorotico. È morto...

      —È morto vergine,—interruppe con accento sornione il dottore, barattandole il pensiero e guardandola nelle pupille per farla arrossire; ma ella che capì la maligna intenzione, invece di evitarla dilatò gli occhi neri, e rispose alla sua occhiata con uno sguardo così audace, che toccò al medico di abbassarli. Però egli non era più così impacciato dopo quelle ultime violente parole contro Leopardi che, svelando le tendenze letterarie della fanciulla, la impicciolivano nel suo concetto della vera donna, la quale non deve essere che madre ed occuparsi dell'andamento della casa.—Fumi di scuola!—pensava:—al primo arrosto ella lascia il fumo e si attacca alla carne.

      Questo scherzo silenzioso lo fece sorridere, ma il silenzio troppo prolungato di Ida lo avrebbe ancora imbrogliato, se un rumore interno dalla cucina non veniva a destarli. Era la Ghita, che scorgendoli seduti sulla panchina, così nascosti a tutti gli sguardi e vicini che si toccavano colle vesti, non potè frenare un gesto malizioso.

      —Ha fatto buone visite stamattina, signor dottore?—chiese appoggiando la testa all'inferriata.

      —Una.

      —Lunga eh?

      —Così, così:—rispose sullo stesso tono.

      La fanciulla si alzò indispettita.

      —A quest'ora la mamma è desta senza dubbio, se lei vuole vederla; ed entrò per la prima. Egli la seguì, scambiando un sorriso colla Ghita nel passarle davanti. Salirono le scale.

      —Che puzza!—esclamò entrando nella camera:—bisogna aprire la finestra. No, no, anderò io;—ma la fanciulla rossa in viso dalla vergogna gli rispose fra i denti.

      —La non s'incomodi, guardi pure alla mamma.

      Questa, scorgendo il medico, aveva già cominciato a gemere colle lagrime negli occhi, quasi per volerlo commuovere collo spettacolo della propria infelicità e strappargli alla fine il rimedio. Egli s'appressò sbadatamente al letto, come tutti i medici che, avendo già dichiarato


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