No. Alfredo Oriani

No - Alfredo Oriani


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si diradavano sulla soglia di un mondo lontano; e nullameno le era sfuggito nella inconscia risoluzione di un momento supremo. Aveva arrischiata la vita alla posta di un giuoco sconosciuto, ma tanto più tremendo, che la posta poteva tardare di molto a risolversi; quindi soffriva le prime febbri del dubbio in un tumulto di affetti e di ragionamenti.

      Tutte le energie della sua volontà e delle sue passioni battagliavano intorno a questo no, che il buon senso batteva col flagello della propria volgare ironia, mentre ella seguiva le vicende di quella battaglia in sè medesima coll'ansia immemore dello spettatore, che si perde in una troppo acuta attenzione.

      Era sola. La mamma, il medico, il villaggio co' suoi costumi, i suoi giudizi, erano scomparsi; nessun'eco la infastidiva, nessuna voce la irritava. Era ben sola con sè medesima, in faccia alla propria risoluzione, col sentimento tragico della sua grandezza e l'affanno compresso di vere, indeterminate e forse invincibili difficoltà. Si accorgeva che, pure fortificandosi in questa decisione, non guadagnava nulla sul futuro, ma il cuore le si alzava sotto le strette della paura, mentre il pensiero le si spingeva innanzi come un segugio a cercare il nemico. Si esaltò ancora, prese quel no e, considerandolo come lo scrittore rivoltola fra le mani la prima copia del suo primo libro, lo ripetè sonoro ed aggressivo. No era stata l'arma delle sue battaglie sempre perdute, ma dalle quali era uscita sempre illesa, cosicchè nella propria vanitosa erudizione scolastica usava paragonarsi ad Isada, lo spartano, che balzò nudo dal bagno a combattere per le vie di Sparta la splendida ed inutile audacia di Epaminonda.

      No! Se quando bambina si affacciò al mondo dal ventre della madre le avessero chiesto: Vuoi entrare? ecco forse il solo no, che non avrebbe pronunziato. Ida amava la vita e, benchè l'avesse sortita in un ambiente ingrato, vi si era abbarbicata colla incontrastabile tenacità di quelle piante selvatiche, che spuntano fra le fessure delle rocce e le allargano.

      Era nata trovando un padre, una madre, un fratello. Così piccina la dissero subito incomoda; la mamma le dava mal volentieri il latte e, quando ella piangeva per la fame, la dichiarava la più cattiva delle bambine del mondo. Il padre non la guardava mai senza accusarsi dell'errore di esserle padre, e il fratello di quattro anni aveva già per lei tutto il disprezzo di un primogenito.

      Ida era secca e livida. Malattie o patimenti, aveva la pelle già rugosa, orribile in quell'età che i bambini hanno la freschezza dei fiori, e, strano particolare, due bellissime labbra, la meraviglia di tutte le donne che bazzicavano per casa. Ida si era sempre ricordata di questa sua sola bellezza di bambina; quindi un giorno, che la mamma gliene parlava, scappò a dire:

      —Era una promessa, la manterrò.

      La mamma non le aveva badato; d'altronde non avrebbe capito.

      In casa si diceva da tutti che la bambina morirebbe. Molte volte, sospesa alla mammella della madre, Ida avrebbe potuto udirla, se la sua intelligenza ne fosse stata capace, ripetere senza guardarla nemmeno: È un cadavere, il Signore se la prenderà. Poi la mamma chiamava il fratellino, incantevole fanciullo dalla testa bionda, e pazza d'amore si chinava ad inondargli la fronte di baci. La piccina, perdendo così la mammella, piangeva.

      —È brutta, mamma!—esclamava Peppino, mezzo ridendo e mezzo rabbrividendo alle boccacce di quel visino sozzo di lagrime e di bava.

      —Non è già tua sorella.

      Infatti non lo fu lungamente. Un giorno Peppino si ammalò, quell'altro giorno la difterite lo aveva ucciso. Fu un intenso, uno spasimante dolore. Il padre, che aveva concentrato in quella graziosa e fragile vita tutte le speranze della propria, ne rimase per qualche tempo come selvatico; evitava ogni contatto di persona, usciva il mattino di casa alla campagna, e seduto sul parapetto di un ponte, al rezzo di una quercia, alla poca ombra di una siepe, passava tutta la giornata nella torbida fissazione del sogno svanito, per non ritornare a casa che la sera, quasi sempre colle lagrime agli occhi, come se la malinconia del crepuscolo intenerisse la sua disperazione. Era ancora più trasandato negli abiti ed incolto nella barba, mentre la mamma, avendo pianto maggiormente, cominciava già a consolarsi e lavorava per il Gesù bambino dell'arciprete una bella veste di moerro. Poi anche il padre si confortò, ma serbando sempre nell'anima la larga cicatrice di quella morte.

      La sua vita non era felice. Nato da una ricca famiglia del contado, da lunghi secoli oziosa ed ignorante, fu educato prima in un seminario, poi all'Università, dove si laureò ingegnere. Ma nelle vacanze di un anno si era innamorato della vedova dell'usciere, bella donna, che faceva allora da levatrice e da balia. Sulle prime la cosa non fece rumore, e la si suppose un capriccio, molto più che la balia non godeva una riputazione troppo illibata; poi si rivelò la passione, e fu un subbuglio in casa. I genitori e i fratelli, che già astiavano il nuovo ingegnere per le opinioni e fors'anco i vizi guadagnati negli studi, a questa follia, che offriva loro la rivincita sulla sua continua boria, minacciarono di espellerlo se non troncava la mala pratica, ed avventarono parole oscene contro la balia; ne scoppiò una scena orribile. L'altro, così attaccato di fronte, si rifugiò nella ostinazione per vincere, esagerando a sè stesso il proprio affetto e servendosi dell'ombra gettata intorno alla propria donna per vederla più bella e più poetica; quindi volle sposarla per vendicarsi di loro colla propria rovina. Il padre gli diè la legittima, illusoria, giacchè in quattro poderi di nessun conto e stimati ad un prezzo assurdo; l'ingegnere capì, ma rispose coll'alterigia di un muto disprezzo. Quindi andò a stabilirsi nel villaggio, giurando (e mantenne poi il giuramento) che per fortuna o disgrazia non avrebbe più rimesso il piede nella casa avita, nè considerati per parenti coloro, che ne lo scacciavano.

      Però la vita era scabra in quella nuova posizione, perchè egli aveva poco studiato e meno appreso all'Università, e, malato dell'orgoglio della vecchia casa, ripugnava ad un lavoro pagato con grettezza da quella gente montanara. La moglie, gonfiatasi nella superbia del nuovo stato, era continuamente in sullo spendere, i denari pochi, la noia dell'ozio intollerabile, i sarcasmi degli amici frequenti, le cure minuziose ed acute. Si scoraggiò, guarì dalla passione, e fu perduto; ma non mise un lamento, nemmeno quando la moglie, ghiotta di qualche veste o di altra spesa, lo irritava di sollecitudini, affinchè lavorasse. Allora gli nacque Peppino.

      Lo stagno della sua vita ridivenne ruscello attraverso nuovi fiori, giù verso la valle popolosa e sonora di vita. Egli medesimo, rinato in questa nuova esistenza, vi si guardò bello, delicato, piccino, preparandosi questa volta a conquistare l'avvenire contro tutti coloro, che, tiratolo nel fosso, ne avevano alzate le risa e venivano tutti i giorni ad impancarsi nella sua vita travagliata, siccome ad una bettola, sminuzzandosi i suoi dolori. Peppino doveva studiare, divenire un grand'uomo, mentre egli si condannerebbe alla più stretta economia per preparargli in un modesto, ma netto capitale, il danaro d'ingresso al mondo dell'aristocrazia e degli affari. Però questi non erano, sebbene profondamente sinceri, che progetti; Peppino era troppo bimbo ancora per studiare, quantunque al giudizio di tutti gli amici di casa mostrasse di già una portentosa intelligenza; le economie ben stabilite nel bilancio mentale della famiglia non si realizzavano per una folla di piccoli inconvenienti, di minime spese, di più minimi danni, i quali facevano sì che il passivo superasse sempre l'attivo.

      E Ida entrò come una nuvola in questo cielo fulgido di speranza; poi il sereno si fe' nero come un panno mortuale, il vezzoso bambino era morto, e in quel cielo abbrunato la piccola nuvola fu ancora un rifugio pei profughi dalle tenebre invadenti del sepolcro.

      Ida fu più curata, più amata; ma quale differenza fra la sua testa ancora stupida e la personcina pietosamente frale colla testa folle di Peppino e quella sua attività battagliera, le movenze gaie, le scappate irresistibili!

      La piccina, a due anni, stentava ancora il passo, e mettendo così tardi i denti piangeva tutto il giorno. La mamma poco paziente l'abbandonava, ma egli se la pigliava in braccio e, coprendola di baci, le parlava colla commovente insensatezza dell'affetto. La bambina, incapace di comprendere le parole, doveva per un mistero del sentimento capirne la bontà, giacchè in quelle carezze scordava quasi i dolorini delle gengive, e, guardandogli negli occhi azzurri, dolci dolci, gli sprofondava le impotenti manine nella barba. I denti spuntarono, e coi denti si fortificarono le gambette, si rinfrescò la pelle, crebbero i capelli, crebbe tutto il corpo. La bambina si sviluppava, si trasformava, non era bella ed era già graziosa; e forse un giorno avrebbe posseduto la più possente e continua delle bellezze,


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