No. Alfredo Oriani

No - Alfredo Oriani


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vi posò sopra ogni cosa, e piantando la punta del coltello nel mezzo del formaggio vi premè con tutto il peso del corpo per romperlo.

      —Verrà il dottore questa sera?

      —Probabilmente.

      —Quasi quasi, se non avessi da andare lontano, mi fermerei ad aspettarlo: ho il bambino grande, che non vuol mangiare più nulla; non gli piace nemmeno il pane bianco.

      Ida levò il capo.

      —Bisognerebbe esser signori e pagargli sempre del companatico; allora forse... Ma già, i bambini dei poveri... se non mangiano! tanto peggio, moriranno.

      Però l'accento di quelle desolate parole era troppo smancerato, e la Ghita ne sbirciava l'effetto sul volto della padrona, sempre sospesa col manico del coltello nel pugno.

      —Ehi? per me poi! Ognuno ha le proprie disgrazie;—e tese la mano per ricevere quella porzione di cena, quasi nella fretta di andarsene; ma Ida le accennò il pane sulla madia, presentandole il formaggio sulla punta del coltello.

      —E lei?

      All'acuta ed involontaria ferita Ida drizzò fieramente la testa: fu un lampo.

      —Io te lo do.

      —Grazie, grazie proprio, la mia signora. Ah! io già non posso dir niente: il Signore le ne renda merito. Lo tengo tutto per lui! poverino... Dica: non ha proprio bisogno di niente? Perchè... se ha bisogno...

      —No, andate pure.

      —Vuole che accenda la candela?—insistè.

      —Non importa.

      —Allora...

      —Ma no,—interruppe senza voltarsi la fanciulla, cacciando un sospiro di noia.

      La Ghita si guardò tuttavia attorno, riordinò due bicchieri presso una boccia, schiacciò contro il muro il fascio della legna, si torse ancora sull'uscio verso la fanciulla, ed augurandole la buona notte uscì.

      Nella cucina era già buio, e fuori la sera si abbuiava. La fiammella del focolare riappariva più rada e più piccola, i candelieri di ottone si erano spenti, gli utensili di rame non esistevano più; appena appena nell'oscurità un'ombra più densa faceva sospettare che in quel vuoto tenebroso vi fossero dei corpi. Nel cortile la sera pigliava del lividore, forse dalla terra e dai muri della casa, o forse i vetri della finestra la rendevano ancora più triste. Era una sera meschina come quel cortile; quel cortile non confinava con nessun mondo: non monti dalle cime bianche ed azzurrine, non campi dai lunghi filari denudati e col terreno pettinato dai denti del rastrello, non una strada che conducesse persone o pensieri ad una meta, non una voce che respingesse quel silenzio, non una forma di vita, che alterasse quella piccola e smorta desolazione.

      Ida pensava; la fronte contro la palma, il mento innanzi, la faccia inverdita dal chiarore dei vetri, era fuggita dalla finestra di quella cucina in un altro mondo lontano; ma improvvisamente tutta quell'ombra le si infittì intorno e, fluttuando, la sommerse.

      Quindi si mirò dappresso, quasi a riconoscere il luogo. Il buio si poneva invano fra gli oggetti, giacchè l'anima riconoscendoli si urtava in loro. Ella si rammentò ora l'aspetto del cortile, gli altri oggetti nel giorno, quando il sole saliva la curva del meriggio e discendeva la curva del tramonto; era sempre un cortile grande come un tavolone d'osteria, brutto di gibbosità, col terreno troppo calpestato. La siepe di mortella nella propria poetica miseria lo rendeva ancora più miserabile, con quei due fichi, e in un canto quei due cespugli di ortiche, i soli viventi, in un altro un fascio di legne racimolate dalle donnicciuole e vendute per pochi soldi in piazza, i cadaveri di quel cimitero. Si rammentò che non vi scendeva mai a passeggiare, che non si era mai seduta sopra quei due sassi composti a panchina presso il fico della finestra; poi la Ghita che portava nel cortile tutte le immondizie, tutte; il disgusto degli occhi che la vinceva sul disgusto del naso, certe forme, certe cose tutto il giorno sott'occhi, e chiunque entrasse nella cucina, cacciando lo sguardo dalla finestra, le vedeva in una specie di fossa poco imbottita di felci secche. Anzi una volta, discendendo le scale, aveva inteso una grottesca allusione del calzolaio colla Ghita: ella avrebbe voluto piangere e non lo potè, perchè non si piange di umiliazione. Il pudore della morale ha ferite, delle quali il solletico compensa lo spasimo, quello della vanità mai.

      Quel cortile era la definizione di quella casa.

      Ida gli voltò le spalle. Un guizzo della fiamma illuminò istantaneamente la cucina, e tutto riapparì; la madia coi candelieri lucenti, il vecchio armadio butterato, enfiato, coi quattro sportelli, che senza la serratura sarebbero cascati come i petti di un soprabito frusto, gli ornati della sua cimasa fracassati, quelli dei piedi mangiati dai topi, dai gatti, forse dall'acqua, dalla scopa.

      —Certi armadi conservano male la biancheria,—aveva detto un giorno la Ghita colla Veronica, la moglie dell'oste, vendendole alcuni lenzuoli fini per conto di Ida. La Ghita aveva ragione. In seguito aveva venduto altre cose della cucina. Per esempio nella batteria dei vasi di rame v'erano dei vuoti e molti; quelli rimasti avevano una brunitura (Ida la vedeva al buio) appannata dal tempo e dall'ozio. E girando sempre lo sguardo, lo fermò nel muro sopra il ceppo a treppiede; un filo di ferro, rattenuto da due chiodi, vi sosteneva fra gli altri un coltello lunghissimo e bianco. Una volta questo serviva ad ammazzare i porci. Il pensiero della fanciulla si posò alquanto su quella lama, vi si strofinò, ma il freddo del metallo brunito le diè i brividi, costringendola a staccarsene.

      Era caduta nella solita meditazione. Adesso si sentiva freddo. Si alzò: quindi camminando al buio colla sicurezza del cieco, cui la memoria è luce, si appressò al focolare, e si sedette sopra uno sgabello di legno greggio.

      —Le sei e un quarto!—mormorò con voce avvilita, consultando l'orologio.

      La sua immaginazione sfuggì di nuovo alla realtà di quella cucina, ma il luccichio dei carboni l'attrasse ancora. Ella vi si affisò, e quasi l'allegria di quei colori labili e dolci le si apprendesse all'anima, schiuse le labbra, e tutto il volto le si schiarì di una bontà quasi insolita. Allora, colle molle, pazientemente, levandoli ad uno ad uno, cominciò ad alzare i carboni in un mucchio conico ed ardente, e si disponeva a disegnare sotto di essi un terrapieno colla cenere, quando due colpi battuti sopra il soffitto la sorpresero. Le sfuggì un moto involontario di spalle. I colpi si ripeterono, si alzò, respinse il gatto, rattenne un carbone, l'ultimo, sulla cima, che cadeva, e la mente tuttavia preoccupata da quel giuoco irriflessivo, salì due rami di scale, spinse una porta socchiusa.

      —Non avevi inteso?

      —Sì.

      —Ahi!—esclamò l'ammalata portandosi violentemente la mano al costato destro:—ma che cosa ho mai fatto io?—E, abbandonando il capo sulla testiera del letto, chiuse gli occhi. Furono pochi secondi.

      —Che ora è? dammi un po' da bere.

      —Che cosa volete, mamma?

      —Ah! lo so, non ce n'è più. Se invece di studiare tanto, avessi fatto la sarta, a quest'ora potevi pagarmi di quel vino santo.

      L'ammalata agitava smaniando la testa. Ida si sedette al capezzale, ed appoggiando un gomito sulla sponda del letto, si premè la pezzuola contro il viso. La stanza era piccola, l'ambiente tiepido ed umidiccio. Un'afa nauseante, quasi che la viscosità del respiro dell'ammalata pesasse nell'aria, sembrava umettare le pareti scalcinate negli zoccoli ed illuminate fievolmente da una candela di sego per terra, in un angolo, entro un imbuto di carta. Il letto restava al buio, ma sebbene la sera fosse appena incominciata, la camera aveva già l'atmosfera della notte. Ida, curva sulla coperta, colle spalle negli orecchi come per resistere all'oppressione di quel puzzo, che il caldo sembrava liquefare all'aria, aveva chiuso gli occhi respirando violentemente nella pezzuola.

      —Mi dà fastidio,—disse l'ammalata accennandole la pezzuola.—Ma non ti si può dire più nulla! Non hai quattrini, e compri degli odori! Dove vai adesso?—proruppe.

      —Giù a cena.

      —Torna, mangerai qui; mi lasciate sola tutto il giorno!

      Questa


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