No. Alfredo Oriani

No - Alfredo Oriani


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insino alla clavicola, sino all'altra mammella, inesprimibile rimasuglio, e giù sino alla cintura. Le clavicole, come spostate da uno sforzo, erano salite fra i tendini rattratti del collo; la pelle si era chiazzata nello stiracchiamento, rigandosi di minimi solchi, finissimamente rugosi, flaccidi ed incerti. Il resto non si vedeva più, ma sotto le ascelle e sopra le ascelle, fra le spalle grugnose, si sprofondavano due buche, sulle quali l'ammalata piegava ogni tanto la testa, così piccola nella macilenza, che vi si sarebbe quasi nascosta. Anche gli uccelli ammalati la nascondono sotto le ali.

      Ida le adattò la tovaglia alla cintura, ed insinuandogliene una punta sotto l'anca, con uno sforzo visibile su sè medesima staccò leggermente quel groppo di filacce, che imboccava l'ulcera. Le quali avendo troppo aderito alla carne viva si scissero. Le sue mani, quasi più belle in quel momento, coi mignoli alzati e le unghie rosee, tremavano nella disgustosa operazione, cercando uno per uno quei capi bianchi fra il glutine della cancrena, mentre un odore rivoltante le batteva il respiro e l'ammalata gemendo tentava di sottrarre la piaga.

      —Coraggio!—mormorò la fanciulla, rialzandosi vivamente per non soffocare. I loro sguardi s'incontrarono, quello della vecchia spento e supplichevole, quello di Ida febbrile di animazione.

      —Sporgete il petto,—le disse aiutandola con una mano al dosso:—così...

      —No, oh mio Dio!

      Ida le stava già sopra colla spugna inzuppata d'acqua.

      —Madonna mia! mi raccomando! datemi voi un po' di forza,—gemè congiungendo le mani.

      —Sì, sì, pregate.

      L'acqua sgocciolò nel vano cavernoso battendone, strappandone i filamenti imputriditi, trascinandoli giù per il rossastro del seno fra un rigagnolo di marcia; ma alcuni non si spiccavano, lacerati dall'urto dell'acqua, movendosi come cespi d'erba alla foce di un fosso. L'ammalata, il labbro inferiore fra i denti, soffocava le grida del dolore.

      —Conduce, conduce?—balbettò con un timido accento di speranza.

      —Sì.

      —È meglio, non è vero?

      L'altra non rispose.

      —No, no, basta;—supplicò, vedendola bagnare un'altra volta la spugna. Infatti la piaga era già lavata, e l'ulcera, larga quanto il buco di una palla, appariva di un rosso anche più bruno, colle labbra stracciate proprio dove altre volte sorgeva la punta della mammella. Un pensiero commosse la fanciulla; ella vi si era sospesa bambina, e la sua bocca, allora fresca come il calice di un fiore, aveva lungamente baciato la punta di quel seno, sprofondatosi poi in un'ulcera. Vent'anni fa! Adesso la donna inorridiva della delizia della bambina.

      Ida era rimasta cogli occhi nel volto della madre.

      —Perchè non ce la vuoi mettere un po' di carne? Intanto che si divora quella, non mangia la mia.

      —Pregiudizio! ve l'ho pur detto.

      —Però fa bene: la piaga mangia pure. Ah!—strillò, sentendosi premere nella piaga il groppo delle filacce asciutte. Ma Ida precipitò il resto della medicatura; spalmò qualche grano di una bianca pomata intorno al cratere, vi spianò sopra una grossa foglia di cavolo, la ricoperse colla pezzuola, e, riaccomodandole al collo la camicia, la ricinse col lenzuolo. L'inferma era di un pallore orribile, colla fisonomia stravolta, quasi senza espressione sotto quella stretta; solo il labbro inferiore, tremolo di spasimo, lasciava passare ancora un soffio di vita.

      Ida s'incantò in quell'ineffabile spettacolo di strazio. Non sentiva più il puzzo, non aveva più schifo.

      Quella donna era sua madre, sua madre moribonda, moritura di dolore. Un impeto d'amore le irruppe dal cuore inondandoglielo di una tenerezza refrigerante; e stava già per lanciarsele al collo, rattenuta solo dal timore di farle male, quando l'altra agitò lievemente la testa, aprendo gli occhi.

      —Lì incantata a vedermi soffrire, invece di metterti in ginocchio e pregare la Madonna, che mi passasse! Ho quasi fede che tu ne goda.

      —Oh!—mormorò la fanciulla, sentendosi afferrare rabbiosamente la gola da quel tumulto subitaneo di amore e palpitare le lagrime negli occhi. Fu un attimo; quella esaltazione le rovinò sul cuore, e la abbattè.

      —Disgraziata!—susurrò ancora l'inferma, questa volta riassalita dai soliti dolori, ma con meno violenza.

      Ida la considerò, e non riconobbe più la martire di poco prima. Riabbassò il volto, si girò attorno un'occhiata di esame, e lenta, sulle punte dei piedi, pallida, affranta, ritornò nella propria camera senza darle nemmeno la buona notte.

      Il gatto dormiva sul letto.

      Andò a sedersi sulla sedia presso il capezzale, reclinandovi la fronte. Avrebbe voluto piangere, ma la tempesta dei sentimenti era così furiosa, che non lo poteva. L'amarezza dello sdegno vinceva in lei la pietà del dolore. Di quando in quando un lamento angoscioso sorgeva dall'altra camera, senza che la fanciulla lo avvertisse, poichè si lagnava ella medesima. Il suo pensiero urlava in quella tempesta colla disperazione del marinaio, che insulta l'uragano troppo tardo ad ingoiarlo, la raddoppiava, la inferociva; le tenebre non erano abbastanza nere, i lampi abbastanza sanguigni, e la folgore brontolava appena come un cane da pagliaio. Avrebbe voluto che le onde fossero state di piombo, che le raffiche avessero avuto la ruina delle onde, per ruggire in quella procella, disperdervi il mondo, disperdendovi sè stessa. Le nubi addensatesi nella lunga sera si squarciavano d'un tratto, risolvendo tutto il temporale in uno scoppio. Quindi le pareva che i giorni della sua vita le piovigginassero sull'anima come sopra un cadavere, così che ella poteva contarne tutti i colpi, mentre un gran volo di corvi dagli occhi gialli le passava sulla testa e, mozzandole col vento delle lunghe ali il respiro, si allontanava.

      Che le importava di morire?

      Da gran tempo vestiva sempre di nero, portando così il lutto della propria giovinezza. Morire...; poi tutti i cancri non sono al petto, ella ne aveva uno nell'anima.

      —Morire,—ripetè levandosi nell'attonitaggine della prostrazione:—per causa di lei?!

      Invece andò alla finestra; il fanale apriva sempre nella strada quel solco lucente, vi si incantò.

      —Pare un pugnale piantato nelle tenebre.

      A poco a poco il vento di quella tempesta si acquetava, ma, riacquistando la coscienza della realtà, ella non conosceva quasi più la propria camera. Le pareva più piccola e miserabile, una vera prigione, nella quale l'avessero chiusa tutta la vita per rubarle nel mondo la fortuna di un trono. E allora un orgoglio smisurato le gonfiò il cuore, una nebbia di iridi le avvolse il pensiero, mentre il pensiero le si drizzava come un serpente sulla coda. Pallida, le narici frementi, guardò attraverso il muro di sassi il letto della mamma atteggiata di sofferenza, poi dilatando le pupille passò oltre, si spinse al di là, nel buio, come il raggio del fanale, alzandosi sempre, crescendo di statura; e quando fu gigante, col fremito dell'onnipotenza nei muscoli, col coraggio dell'infinito nel cuore, e i suoi occhi ebbero sfondato il mistero della paura, vinta la paura del mistero, erse la testa e, scrollandone poderosamente i ricci più neri della notte, con un gesto pazzo, titanico, sublime, scagliò nell'avvenire, invano minaccioso di oscurità, il guanto del duello:

      —No.

      c25

       Indice

      La mattina seguente Ida si alzò prima del solito. Poichè l'aria era tiepida e il cielo del più bel sereno, volle uscire dalla camera, ove passava la maggior parte della giornata sempre sola. Traversò sulla punta dei piedi quella della mamma, buia ed ancora più fetida. La mamma dormiva quietamente.

      Scese, spalancò la finestra della cucina e rimase all'inferriata, respirando con avidità l'aria e la luce mattinale. Il cortile era sempre il medesimo, ma in quella ora mattinale, così chiuso da ogni lato, meno all'angolo lambito da quel sentiero


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