No. Alfredo Oriani

No - Alfredo Oriani


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fantasia accesa, quella bellezza, che pare quasi l'avanzo di un'altra più plastica, e che una passione o un mistero abbiano misteriosamente scomposto.

      Il padre lo sentiva, la mamma no.

      A poco a poco Ida sostituì Peppino. Era sempre una donna, quindi male atta alle grandi battaglie e alle grandi vittorie della vita, ma l'intelligenza, pensava l'ingegnere, non ha sesso; non era bella quanto quel morticino, e tuttavia l'espressione s'insinuava in quella sua fisonomia e la animava. Il suo raccoglimento infantile imponeva un rispetto involontario, le sue risposte fosforescenti abbarbagliavano. Il buon uomo aprì ancora il cuore in faccia all'avvenire, perchè se ne involassero tutte le speranze a riconoscerlo; e decise che Ida, diventando di anno in anno più bella e più brava, possederebbe un giorno le ricchezze preparate per Peppino, e potrebbe, rivelandosi una gran donna, come il nostro secolo ne aveva vedute tante altre, innamorare qualche gran signore e dominare in una casa principesca. Egli la visiterebbe di rado, poichè si sentiva ancora addosso, malgrado gli studii fatti, la ruggine avita; la seguirebbe da lontano, scaldandosi a quel bel sole di primavera le vecchie membra assiderate. E così, sognando tutta la vita, vivea di sogni, preparandosi altri sogni.

      Qualche volta ne parlava colla moglie, che gli rideva in faccia; qualche volta con Ida, la quale afferrava qualche lembo di frase e la ripeteva.

      Però la loro fortuna, non soccorsa dai tonici delle economie, intristiva. I poderi trascurati dimagrivano, le rendite si facevano più incerte e più esigue, mentre la moglie seguitava a nuotare come un'anitra nella voluttà di una grassa illusione. Egli, nell'inerzia accorgendosi inutilmente di tutto, ne provava un grave malessere, dal quale non usciva se non cacciandosi nel giardino dei sogni, colla bambina sulle ginocchia, seduto sulla larga poltrona di percallo, solo in casa, poichè l'altra era sempre da qualche vicina per una qualche faccenda, che svaniva in un pettegolezzo.

      A quattro anni Ida leggeva e scriveva, e l'ingegnere, che aveva trovato in un giornale il nome di Froebel, parlava continuamente della primissima istruzione, degli albori della intelligenza, della sintesi tanto meravigliosa e tanto inavvertita di tutta la logica nel semplice abbecedario. Ma sempre distraendosi, la moglie gli rimase ancora incinta.

      Questa volta la gravidanza fu soggetto di male parole, i due coniugi se la rinfacciarono a vicenda; la nuova vita, che avrebbe dovuto stringere più fortemente la loro, vi si cacciò in mezzo e li divise. Egli riflettè che un'altra bambina sarebbe infelice nel mondo, rendendo infelici loro stessi, che male potrebbero educarla, male dotarla; poi contrasterebbe al cammino di Ida, ed essendo forse brutta e volgare quanto la madre, riattaccherebbe la famiglia a quella ignobile borghesia di villaggio, alla quale egli non avea mai appartenuto e nella quale era scivolato colla follia del matrimonio. Un altro maschio?... Ma dal giorno che Peppino era morto, egli non poteva avere più figli! Un altro maschio rovinerebbe Ida, senza riempirgli nell'anima la fredda lacuna di quella vita sbocciata e caduta come un fiore.

      Geltrude invece, sperando di rifare il suo bel bambino, per dispetto del marito ne parlava assiduamente, massime a pranzo; così che l'altro, malgrado una qualche bestemmia, dovea pure andarne battuto, avendo piegato la prima volta il capo a quel matrimonio con una donna inferiore, e non avendolo più rialzato, vergognoso della propria debolezza, che gli alterchi avrebbero reso anche più ridicola. Taceva, divorava la bizza, o la sfogava indirettamente. Ma più la gravidanza inoltrava e più Geltrude la covava collo sguardo e col pensiero, tutta superba perchè la contessa Monteno di Valdiffusa, ricchissima tenuta di quel comune, ella medesima incinta, le aveva detto, passeggiando nel bosco, un giorno che era andata a trovarla nella carrettella dell'arciprete:

      —Chissà se non partoriremo assieme, e tutte due un bambino.

      La contessa gracile e malaticcia soffriva assai, e Geltrude, sebbene robusta, cercava di imitarla in quei patimenti per deferenza alla gran signora, che si degnava d'invitarla al proprio castello. Vi era ritornata più volte, sempre più accetta, giacchè la contessa, condannata in villa dai medici e noiata da morirne, sola col marito cacciatore instancabile, si sentiva come sollevare lo spirito conversando con qualche estraneo. Poi Geltrude, già levatrice ed una volta anche balia, le parlava sempre di parti, di bambini; conosceva a certi segni il sesso del feto, aveva rimedii per le nausee, una suppellettile fra pregiudizi e cognizioni, che intrattenevano il cuore della povera contessa, già etica, e dopo sei anni di matrimonio allora solamente alla sua prima gravidanza. E voleva un bambino.

      —Le donne sono troppo deboli per la vita.

      —Anche l'ingegnere,—così ella chiamava fuori di casa il marito,—dice sempre così.

      Ma Geltrude partorì prima della contessa un maschio così esile e doloroso a vedersi che pareva un cadavere; tutti dissero che non sarebbe vissuto, e nessuno s'ingannò. Dopo quindici giorni lo portarono al camposanto; il giorno dopo Geltrude, andata a trovare la contessa malatissima dopo il parto, se ne portava a casa una bambina, bella come un angelo. La povera contessa, che si sentiva soffocare sotto le fredde spire della tisi, avea consentito quell'immane sacrificio perchè la piccina non suggesse al suo seno, o non respirasse nel suo alito il veleno della fatale malattia.

      Era stata una scena atroce. Quando Geltrude, florida di salute, le presentò Jela per l'ultimo bacio, la contessa nella sfinitezza del proprio dolore avea ancora trovate due lagrime. Il marito, distrattosi involontariamente ad ammirare il petto turgido della balia, non avea trovato nè una parola, nè una carezza; la vecchia cameriera si era nascosto il volto fra le palme scoppiando in singhiozzi, mentre Geltrude stessa si commoveva suo malgrado, e la contessa fra quella cornice di dolori, nella patetica sublimità del proprio pallore di moribonda, pareva una martire.

      Quella scena fece che Geltrude amasse Jela.

      Infatti convenne con l'ingegnere che non avrebbe accettati salari o regali, allattando la bambina per affezione e cortesia verso la madre. Così il povero uomo salvava il suo orgoglio campagnuolo, mentre non si era piegato a quest'altra follia della moglie se non per la idea improvvisa che la fortuna, facendo di Jela la sorella di Ida, le unisse senz'altro nel medesimo destino per il medesimo mondo.

      Ida, ormai di cinque anni, si mise come una mamma intorno a Jela.

      La contessa di Monteno morì raccomandando al conte Ida e Geltrude. Egli ne fu scosso per qualche giorno, fece venire le piccine al castello, poi si calmò, e poichè si conosceva inadatto a curare quell'infanzia e sapeva Jela in mani che mai le migliori, lasciò andare le cose innanzi, tirando innanzi egli medesimo secondo il solito.

      Una volta mandò un grosso dono; l'ingegnere lo fece respingere da Ida con una lettera scritta da lui e copiata dalla bambina, che lo ubbriacò nel proprio amore di padre. Il conte non ripetè più l'errore, limitandosi ad un complimento ben tornito, quando veniva a trovarle. Così passarono degli anni.

      Jela prosperava. I medici approvavano quella vita, e il conte approvava i medici. Era una piccina bianca e rosea, coi capelli più biondi della seta e gli occhi color di viola; avea le carni di una inesprimibile finezza, i movimenti di un'eleganza e di una civetteria senza nome. Era dolce e buona. Non piangeva, chiamava mamma Geltrude, zio l'ingegnere, sorella Ida. A Geltrude quel nome di mamma facea talvolta sognare la ricchissima tenuta di Valdiffusa, l'ingegnere sorrideva del proprio come di un complimento, Ida esercitava l'autorità di sorella maggiore, tiranneggiandola con abbastanza mitezza. Jela era pazza per Ida.

      Anche il conte le diceva sorelle.

      Quando Jela toccò i sei anni il conte pensò a ritirarla dal villaggio, ma volle che Ida la seguisse; quindi cominciò per entrambe una nuova vita. Avevano i medesimi maestri, uscivano nel medesimo calesse sorvegliate dalla vecchia governante, vestivano i medesimi abiti, cosicchè si sarebbero difficilmente distinte; anzi Ida aveva un'aria ancora più fine ed altera. In quegli immensi appartamenti, arredati con un vecchio e nobile lusso, ella si trovava ancora meglio che non a casa propria; trattava i servi con maniera di piccola sultana, aveva una dolcezza, che respingeva e soggiogava. Così fanciulla non usava più dimestichezza con alcuno; ragionava e posava. Quasi tutto le fosse dovuto, nulla la maravigliava, e tuttavia sapeva che un giorno le converrebbe tornare al villaggio paterno. Quindi nelle lettere all'ingegnere gli narrava la propria vita, anatomizzando inconsciamente sè stessa, così che egli


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