No. Alfredo Oriani

No - Alfredo Oriani


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      L'altra se la strinse al petto.

      —Mi scriverai sempre, e dopo staremo insieme, sempre.

      —Sempre!—e un melanconico sorriso contrasse le belle labbra della donnina:—Tu non sai...

      —Lo so, me lo ha detto la Nencia,—rispose coll'adorabile importanza dei bambini, che sentono di fare qualche cosa di serio:—starai sempre con me; giuralo.

      Ida giurò sorridendo, e Jela, che indovinava a mezzo quel sorriso:

      —Sì, vedrai: mi vuoi bene?—e tornò a piangere.

      Quindi rientrarono nel cortile. Jela smontò ancora dalla carrozza per salutare la sorella, ma la vecchia zia sbuffava, il conte s'impazientiva, la cameriera faceva gli occhiacci a Ida, la quale se ne accorse e disse all'altra con un bacio all'orecchio e il volto soffuso di rossore:

      —Basta, s'inquietano.

      Avea il cuore oppresso; in quella carrettella le pareva di soffocare, ma la carrozza non partiva. Vi era sempre qualche fagotto da accomodare, qualche oggetto di Jela dimenticato negli appartamenti che i servi portavano correndo, poi una ressa di persone, i domestici, i fattori, i due giardinieri, alcuni contadini, i più antichi della casa. Uno, che avea portato un bel paniere di mele fatto da lui stesso, inghirlandato di edera e di alloro, piangeva come Jela, baciandole la mano; era un bellissimo vecchio, che tutti guardavano ancora più commossi dalla sua commozione che dalla partenza della signorina. Il cagnuolo chiuso su nel salone uggiolava dolorosamente, mentre Jela sbirciava ogni tanto verso la finestra, non potendo rispondere a tutti, piangendo, inorgogliendo di quel movimento prodotto da lei sola, lanciando tratto tratto una occhiata a Ida, che attendeva di dietro, sola col babbo, nella carrettella dell'arciprete. La carrettella, molto più vecchia dell'arciprete, era sverniciata, a cinghioni, coi cuscini scompagnati di percallo, trapunti a fiocchetti di lana. Sul sedile posticcio, di contro e dietro la cassa, fra le ruote, due cestoni legati con una infinità di corde le davano l'aria di servire ad uno sgombero; mentre una farragine di fagotti a fazzoletti colorati le si alzava dentro in un monte, che avea già avvilito la povera rozza colle orecchie spelate e le gambe dinanzi ancora sanguinolenti di una caduta. Ma l'ingegnere non era molto più vivace del cavallo, preoccupato di nascondersi le scarpe di vacchetta bianca, vestito di quella giacca verdognola, logora ai gomiti ed abbottonata all'ultimo bottone come usavano gli eleganti del villaggio, senza un pensiero di Ida, la quale si sentiva man mano più straniera in quel ricco cortile, dove avea tanto giuocato e donde usciva per sempre senza lasciarvi tracce e senza che nessuno le badasse. Allora un avvilimento le ruinò sull'animo, una voglia subitanea la bruciò di fuggire subito al di sopra dei tetti col vento, che nessuno la vedesse, per dissolversi ancora profumata di quella signorile esistenza. Ma un'occhiata al padre col mozzicone della frusta in mano, il capo basso come il ronzino, evitando gli sguardi di tutti per non impacciarsi maggiormente, la richiamò alla orribile realtà di quella scena d'addio, dietro la carrozza di Jela, che non si moveva ancora, dentro la carrettella dell'arciprete ancora più immobile della carrozza, e nella quale non poteva nemmeno prendere la posa elegante delle solite trottate.

      Fu un quarto d'ora infernale, il primo della sua vita.

      Finalmente!

      Giunsero al villaggio che suonava mezzogiorno, l'ora del pranzo. Le pareva di entrare in un mondo sconosciuto di persone che la salutavano, pieno di piccole case e di piccola gente; poi smontò, parlarono, nessuno la comprese, e dichiararono che facea la signorina per aver fatto mezzo la serva per quattro anni a dei signori. La mamma fu la prima a confermare quel sopranome.

      Qui i ricordi della fanciulla incalzavano.

      Si ricordava la dolorosa esumazione delle antiche abitudini della sua casa, la mamma e il babbo che si bisticciavano sempre, le ragazze del paese che la sfuggivano per le sue nobili maniere; quindi si trovava sempre sola, coglieva uno spino ad ogni passo, si sentiva attorno un'atmosfera frigida di ridicolo dovuta ad una superiorità morale, che, malgrado l'eccellenza della propria natura, stentava in quella fanciullezza a ben precisare. Si rammentava la difficoltà delle ore solitarie, le peggiori di un linguaggio, del quale avea perduto l'anima. Parlando in casa o fuori, non s'incontrava più in opinioni simpatiche, anzi non la capivano e la deridevano; si rammentava di un bel ragazzo falegname, che lavorava sotto la sua finestra e si era innamorato di lei. Allora ella stava sempre alla finestra con un libro in mano, si guardavano; poi si erano parlati, poi il giovinetto, messo su dai compagni, le avea usato uno sgarbo. Quindi una rottura, e poi sola nuovamente, e studiava, studiava.

      Il babbo era sempre malinconico. A pranzo erano insistenti discorsi d'interessi, che andavano in malora; non si mangiava una pietanza che il suo costo non trascinasse seco osservazioni spiacevoli o qualche profetica lamentazione della mamma sull'avvenire della famiglia. Così la fanciulla smetteva di mangiare. Aveva ormai quindici anni, cresceva sempre più bella, di quella sua speciale bellezza.

      L'ingegnere la volea sempre ben vestita, la meglio vestita del villaggio, ma la mamma contrastava ad insolenze, così che Ida finiva per vergognarsi di quei rimbrotti e di quei vestiti ancora più goffi, senza osare un'osservazione, ripiegandosi su sè medesima e pensando al destino di Jela, contessa milionaria.

      —E io?!—le accadeva spesso di mormorare.

      Poi fu presa la grande risoluzione; Ida anderebbe all'Istituto superiore femminile.

      —In ogni caso sarà una maestra,—aveva risposto l'ingegnere a Geltrude, che si opponeva furiosamente.

      La fanciulla aveva pianto di nascosto quel giorno.

      Partì per la città.

      Viveva a pensione con una modesta famigliuola di sarti, i quali le avevano assegnato la loro camera più bella e le servivano a tavola per la prima i migliori bocconi. Erano piuttosto buona gente, con idee più basse della propria condizione, che lesinavano il soldo e parlavano dell'avvenire delle maestre come di una mostruosa fortuna.

      Ella vivea nella propria camera non uscendone quasi mai, studiando o sognando, ma soffrendo ancora più, giacchè per quanti quattrini le mandasse il povero ingegnere, erano sempre troppo pochi ai suoi nuovi bisogni di città. La superiorità della sua natura, che la spingeva verso il lusso, come le piante si spingono verso la luce, le facea provare una strana voluttà ad ogni camicia bianca, ad ogni stivaletto ben serrato. Il bello per lei era il primo aspetto delle cose, l'estetica una religione. Teneva quella cameretta con una decenza patrizia, sè medesima con una divinità. Si bagnava, si pettinava sovente nel medesimo giorno, usava sempre dei manichini irreprensibili come il buon gusto delle sue frasi e la sceltezza delle sue maniere.

      —Chissà mai!—diceva la Lucia col marito.

      Ma le rade volte che uscivano a passeggiare, questa le facea da serva, ed andavano nei luoghi meno frequentati, perchè Ida, vestita come nessuna delle sue pari, si vergognava tuttavia dei propri abbigliamenti, quasi tutti dovessero notarla e farne commenti. Quindi avviluppava ogni signora, cui s'imbatteva, di un lungo sguardo, al quale nulla sfuggiva; indovinava le sottane sotto le vesti, la camicia sotto le sottane, le calze sotto la camicia; i guanti, il cappellino, l'acconciatura dei capelli, la finezza di una trina, i ricami di un tulle l'occupavano per tutta una passeggiata; quindi la sera a casa li ripensava, distraendosi dagli studii. Una sete, un'invidia di lusso, la torturavano; provava le lacerazioni d'un insulto ad ogni occhiata lanciata dietro una donna meglio vestita di lei, avrebbe volentieri dato un anno di vita per passare un giorno in carrozza.

      Il cuore inaridito lasciava libera la testa, ma la sua testa era un vortice, che ingoiava tutto il mondo.

      Essendosi ingannata col nascere nella propria famiglia e nel proprio villaggio, si accorgeva di essere povera ed infelice per sempre; ma il malessere di questa preoccupazione incessante s'accresceva ancora in quella abitudine di mutismo e di isolamento. Quando il dispetto lungamente accumulato volea erompere in dolore, ella lo comprimeva tuttavia; i lamenti così soffocati morivano in maledizioni, che le lasciavano sulle labbra la schiuma di una convulsione, mentre per sopportare lo spasimo di tale piaga era costretta ad aprirsene un'altra colle unghie, rimedio feroce dei grandi ammalati. Quindi passeggiava febbrilmente per la camera o si buttava sul letto, perchè non avea


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