No. Alfredo Oriani
perciò era il supremo trionfo del vinto, la sua vendetta contro il mondo. Questa idea, che ha sedotto tanti poeti infelici, sedusse lei pure. La studiò, la vestì, le diede la posa più scultoria; si compiacque nell'immagine della torva fanciulla sempre bruno-vestita, che una notte, col cielo plumbeo, senza nè luna nè stelle, si alzava dal largo tavolo ingombro di libri lungamente compulsati e pur troppo capiti, si levava bianca di una tragica serenità, i capelli disciolti, e guatando un'ultima volta il mondo dalla guglia del proprio sublime dolore, si precipitava nella tacita immensità della morte, come una spenta meteora tramonta nel baratro della notte, senza gittare un grido o lasciare una parola, che potesse rivelare ai villani della terra il segreto della sua eroica sciagura. Morire, e che gli altri la piangessero poscia inutilmente, come inutilmente essa avea vissuto!
Ma la sua testa era troppo forte per cedere a questa tentazione; quindi bastava il ricordo del castello cogli appartamenti della morta contessa, perchè la vita la riattirasse con tutto il fascino delle sue speranze battagliere e la magia delle sue gioie vanitose. Allora sicura di una nuova energia scrollava il capo mormorando:
—No.
Ora le difficoltà finanziarie della famiglia si erano moltiplicate da non dare più requie. Tre dei quattro poderi della legittima avevano mutato padrone, il quarto stava per seguire il cattivo esempio; laonde fra la mamma e il padre si allargava l'abisso, sul quale le liti non gettavano più il loro ponte d'insolenze. Forse essendosi finalmente conosciuti, temevano di andare troppo oltre nel cedere all'intimo corruccio. Ma, allontanandosi l'uno dall'altra, si erano separati dalla fanciulla.
L'ingegnere, da qualche tempo uso alla bettola coi peggiori soggetti del paese (nè i migliori valevano gran cosa), non si ricordava quasi più della sua idolatria per la bambina; anzi il sogno della sua vita, essendo ormai sulla soglia della realtà, poichè Ida aveva mantenuto le promesse intellettuali dell'infanzia, sembrava come dispettarlo, ostinandovisi solamente per smentire le insolenze degli amici, i quali gli dicevano fra un boccale e l'altro:
—Quando spiccioliamo l'ultimo podere?
Ma in fondo era lacerato da un rimorso. Avea buttato la sua bella vita nel grembiale di una trista donna, sacrificando a' suoi capricci l'avvenire della figlia; la quale chi sa come finirebbe, costretta a battere alle porte del mondo come una mendicante. Il suo orgoglio si rivoltava, diventava odio verso tutti, verso la sua famiglia, che lo aveva scacciato, e pur troppo con ragione, verso la balia, verso Ida, che aveva l'immenso torto di essere una natura superiore, forse un ingegno potente, un carattere luminoso, e per colpa della povertà dovrebbe vivere e morire nel buio. Quindi non parlava più in casa o, se parlava, solamente a monosillabi, avventandoli come sassate rabbiose; mentre la moglie, che aveva sempre avuto su lui la supremazia dell'amata sull'amante, alzava le spalle con una tale aria di superiorità, che gli faceva perdere la testa.
Quel disprezzo invincibile di una donna, una... (e l'ingegnere trovava nomi sempre più osceni), era il colmo della miseria. Ida si accorgeva di tutto, ma si ritraeva in sè medesima non volendo, sebbene la sospettasse, conoscere ancora la vera posizione della propria famiglia. Fino allora i dolori della sua vita erano stati nobili, facilmente poetici all'immaginazione; i nuovi sarebbero dolori avvilenti. Ida ricusava. Ma poichè l'ingegnere non aveva trovato migliore rimedio che di ubbriacarsi tutti i giorni, ella non usciva quasi più dalla propria camera.
E una notte, che egli era rimasto per le scale e loro due donne dovettero portarlo di peso sul letto, Geltrude, dopo avere insultato lungamente quel corpo quasi inanime, invelenita ad un moto sgarbato della sua testa, gli diè uno schiaffo violento sulla bocca.
—Vigliacco! guarda come si riduce.
Ida invece mormorò quei versi di Byron:
—Poichè l'uomo ha la disgrazia di essere ragionevole, si ubbriachi!—e nel suo sguardo passò un lampo di compassione per l'infelice, di cui comprendeva la condotta.
Ma la vita peggiorava ogni dì, finchè ella lasciò il villaggio all'apertura delle scuole; si divise freddamente dai genitori, l'ingegnere piangeva.
Allora Ida scriveva un poema su Nerone, in lui personificando sè stessa. Aveva ottenuto dai maestri di essere poco assidua alle lezioni per non muoversi quasi mai di casa; nullameno vestiva colla stessa cura, smarrendosi ogni giorno in un mondo ideale, dal quale la distoglievano appena i fastidi della miseria e le insubordinazioni dei sensi.
La fanciulla perfettamente sviluppata aveva assunto la bellezza del proprio tipo. Aveva la pelle bruna ed ombrata di macchie, la fronte ripida e la bocca grande, ma la candidezza dei suoi denti aveva dei fulgoramenti di cristallo e le sue labbra, piuttosto grosse, si rialzavano agli angoli con una espressione irresistibile di sensualità e di sarcasmo. Il naso troppo piccolo fra gli occhi enormi e sotto le sopracciglie moltissimo arcuate, era il suo maggiore difetto, giacchè dal collo sino ai piedi il suo corpo era un capolavoro, una figura di Mieris allungata dal Parmeggianino. La grazia del suo portamento era ancora superata dalla provocazione inconscia dei suoi gesti e delle sue attitudini; aveva la voce velata come lo sguardo, quasi come la pelle. Poi la sua figura quasi avvolta nel mistero, odorante di voluttà, pareva tratto tratto ingrandirsi nella serietà di un grande pensiero. Ida si capiva. Sapeva tutti i propri difetti e tutte le proprie forze, studiandosi più dei libri prediletti e considerando la toeletta di ogni mattina come gli schermidori la visita quotidiana alla sala di scherma. Che se Leonardo impiegò due o tre anni a copiare la Gioconda, seguendo ad uno ad uno gli errori de' suoi capelli e de' suoi sopraccigli, ella faceva altrettanto con sè medesima all'ampio specchio, che il sarto le aveva messo nella camera e che ella usava quasi da consumarlo, se un'ombra potesse consumare un corpo. Inventava o si adattava gli abiti alla moda senza mutarne il colore, tagliandoli e cucendoli spesso da sè, colla mano ricoperta dal guanto per non sforacchiarsi le dita.
La donna nuda è la donna armata, ha scritto Victor Hugo.
Ida aveva corretto la formula: la donna bella è la donna forte; ma sapeva benissimo, quantunque giovane, che la bellezza della espressione vince così l'altra della plastica, che l'arte stessa ha sempre faticato a raggiungerla. Un pittore le avrebbe trovata una testa brutta, un poeta una testa fatale, ma ella non l'avrebbe cangiata con quella d'una Venere o di una Madonna. Senza averne la bruna caldezza e la incalcolabile sensualità somigliava quasi alla Femme Fellah di Landelle; il medesimo infinito del deserto negli occhi meno avvampante e più profondo, la luce che vi ondulava ad immense pieghe, e i baleni che folleggiavano per quella luce. Però doveva essere una donna brutta per la maggioranza degli uomini e delle donne; solamente colui o colei, che le badasse, sarebbe perduto.
Quindi coltivava questa bellezza segreta per renderla sempre più fine, affilandola come il taglio della spada, aguzzandola come la punta del pugnale. E poichè la bellezza dovea essere l'arma delle sue battaglie, la fanciulla che aveva tanto sofferto e tanto desiderato, aspettando da tanti anni in un silenzio grosso di tempesta, in una calma fremente di lotta il segnale dell'attacco, si guardava sovente nuda allo specchio; e nel provare a sè medesima tutte le pose dell'amore quasi in una rivista de' propri vezzi, agitava i lampi delle pupille come una lama di fioretto nel braccio tragicamente proteso.
Era donna.
Le sue malinconie pigliavano un carattere più serio, i suoi bisogni alzavano la voce; non erano più desiderii ma bramosie, non voglie ma appetiti. Aveva il calore ed invocava la luce. Talora, parendole di aver fin troppo aspettato, si allentava, discendeva dalla roccia scoscesa del proprio isolamento per mischiarsi fra gli abitanti della pianura, dalla quale le arrivavano esalazioni tepenti e voci giocose. Le sue passioni ruinavano al basso quasi a ritemprarsi nella prova, o a scagliarsi sopra una preda imprudente e come uno stormo di aquile riguadagnare le cime azzurrine.
Allora si guardava attorno esaminando gli uomini. Il suo sguardo profondo penetrava i loro abiti, oltre gli abiti la loro vita, impudente come lo sguardo della scienza ed acceso come quello dell'arte. Quindi spremeva il significato di tutte le forme, il piccante di tutti i difetti; animalità, brutalità e bruttezza in quelle ore di febbre avevano la maggior seduzione, un prestigio idealmente satanico, poichè sentendo di degradarsi in quella scesa, avrebbe voluto conservare la propria superiorità collo scendere più profondamente degli altri, che non sospettavano nemmeno le altezze della sua vita quotidiana.