No. Alfredo Oriani
da sposi, il letto non aveva se non un cuscino senza fodera, dalla parte della Lucia e bisunto, poichè il sarto dormiva più basso, colla testa sul capezzale.
Allora Ida pensava all'amore di un uomo e si sentiva nauseata.
Un sucido odore umano esalava da tutta la camera, l'ombra vi era oleosa, i mobili abbietti.
Una sedia fra la culla ed il letto faceva da comodino, ed aveva sempre un mozzicone di candeliere con dentro un mozzicone di candela per la notte; il sego era colato sulla paglia, incollandovi i zolfanelli sparpagliati, squagliandovisi a macchie fetide di verde rame. Bisognava che fossero ben bassi nella scala degli animali coloro, che potevano amarsi in un simile ambiente; ma nonostante tutto quel ribrezzo una ignobile curiosità la spingeva fatalmente verso il letto. I lenzuoli lanugginosi avevano la nauseante morbidezza delle carni non use ai bagni, e si affondavano in due lunghe buche, entro le quali i corpi degli sposi parevano aver lasciato le loro ombre. Quindi Ida pensava a quei due corpi, di notte, abbracciati, mentre ella dormiva sola nel proprio lettino bianco. Un odore viscoso le penetrava tutti i sensi, un calore, quasi rimasuglio del calore di quei due corpi, le saliva dai materassi per le reni, una scappata lubrica del sarto colla moglie, udita nel giorno, le passava sferzando agli orecchi, una stanchezza morbosa le si aggravava sulle spalle. Quella camera pigliava l'aspetto di un antro, il suo tanfo si mutava in un sito terroso di spelonca, tutti gli altri mobili sparivano, mentre il letto rimasto solo l'attirava talmente, che una volta avea dovuto sdraiarvisi abbracciandolo con le mani distese. Poi il falegname, il sarto, qualcuno dei suoi maestri le si presentavano con un'inesplicabile confidenza, intanto che le vesti le davano incomodi, ai quali non avrebbe saputo trovare un nome, e la scienza del pensiero le si nascondeva volontaria dietro l'ignoranza de' sensi.
Una volta assistette, nella stanza che fungeva da bottega, alla prova di due calzoni, e provò un turpe piacere nella discussione dei loro difetti, trovando strano, ella che si stimava così scettica, che nessuno le badasse. E a poco a poco l'animalità si destava nella sua natura colla sgarbatezza di un avvinazzato. Erano contorsioni e fiatosità, che la soffocavano svanendo, poi subito dopo una grande idea o il morso di una passione la ritornavano la solita Ida dall'intelletto sereno e il cuore sanguinante di orgoglio. A forza di sognare talora perdeva così il senso della realtà, che le pareva impossibile di non essere almeno duchessa e milionaria. Un disprezzo inesauribile le traboccava dal cuore su ogni persona e ogni cosa; disprezzava i poveri e i ricchi, tutti coloro che non la capivano o almeno non la indovinavano, mentre guardandosi allo specchio scopriva tanta evidenza di pensieri e tanta luce di passione nel sorriso dei propri occhi. Davvero che il mondo doveva essere composto d'imbecilli, i quali passavano la vita lavorando per un boccone di pane, come gli asini per una manciata di fieno, ed erano egualmente imbecilli, sebbene più belli, i fortunati che non lavoravano. Ella invece si sentiva degna di tutto, capace di tutto come Napoleone dal lido di S. Elena; ma come il grande, cui idolatrava per la fredda onnipotenza della volontà, era lontana dal mondo, sulla soglia di una prigione aperta, nella smorta solitudine di un oceano senza tempeste.
Povera Ida!
Aveva scritta una bella poesia con questo titolo e poi l'avea stracciata.
L'anno finì, e ritornò al villaggio in apparenza la stessa, ma nello spirito profondamente cangiata. Quindi riprese le antiche abitudini, accompagnando la mamma a messa o a spasso, rispondendo rispettosa a tutte le sue domande, ma in fondo al cuore irridendola. Alle compagne, che le correvano incontro, rese appena un saluto di sussiego e parlò col più elegante italiano; quelle sulle prime risero e si prepararono a canzonarla, ma Ida le imbrogliò con tali complimenti, che la beffa plebea cessò in una attonitaggine di meraviglia. Nullameno scoppiò dopo le spalle più violenta.
Però quel suo contegno superbo e cortese in casa cominciava a trionfare perfino della mamma, la quale, a forza di tagliarsi nell'acutezza di quella ragione, la evitava involontariamente e non facea più certi discorsi e non pronunciava più certe parole.
Spesso un'occhiata della fanciulla bastava a frenarla, ma come la sua non era natura da sollevarsi ad una vita più intelligente, ogni tanto si vendicava di quella soggezione con una scenata eccessiva. Ida si trincerava dietro un'aspra indifferenza, quindi tutto l'impeto di quella collera vi si frangeva come ad una scogliera.
Adesso un altro cielo le si era schiuso.
Benchè superasse di poco i sedici anni, lo sviluppo precoce dell'intelligenza la offriva a tutte le seduzioni del pensiero. George Sand l'ammaliò coi propri trionfi di scrittrice. La fanciulla, cui la divinità dell'arte aveva sferzato il cuore con un sorriso, soffriva già tutti i delirii della gloria. Una luce nuova le aveva invaso lo spirito, una lena inaspettata le rinvigoriva tutti i muscoli; nell'ardore delle imminenti battaglie le sue stesse spavalde impazienze la ubbriacavano. La modestia quasi pitocca de' suoi natali le parve allora bella di un significato glorioso in antitesi coll'apoteosi della meta, mentre i posteri li avrebbero cercati con religiosa emozione, e forse più di un poeta dell'avvenire avrebbe fatto colla sua povera cuna il nido ad una canzone immortale. Tutte le asperitudini della sua vita si levigavano perdendo del loro carattere umiliante, quasi tante prove, per le quali il suo spirito dovesse passare purificandosi, tante battaglie che il destino nemico desse al suo genio per contendergli la suprema conquista di un nome. Laonde si fortificò nello scetticismo, perchè l'artista, il quale studia per riprodurle tutte le fisonomie della vita, deve essere al disopra di ogni affermazione o negazione volgare, luminoso come un astro, limpido come uno specchio, sonoro come l'eco della montagna. Vizi e virtù, grandezze e bassezze, non sono che colori di tavolozza; vedere per vedere, ritrarre per umiliare i miopi coll'acutezza della propria vista: Goethe! Ida s'innamorò di Goethe, inabissandosi nel Faust. In fondo alla scienza il mistero, in fondo alla vita il nulla, giacchè lo sentiva fin troppo, il quinto atto del dramma, la redenzione di Faust nel bene era la massima ironia del poeta verso la borghesia inzaccherata d'ignoranza e di morale cristiana. Ma in fondo all'arte la gloria di gittare un ponte magico fra il mistero della scienza ed il nulla della vita, il trionfo dell'individuo sulla massa, la supremazia invincibile dell'ingegno sulle forze coalizzate della imbecillità, delle ricchezze e delle gerarchie.
Incanti di giovinezza, iridi di una bolla di sapone!
Ma lavorava sul serio. Concepiva più di uno studio alla volta, e lo cominciava per piantarlo subito dietro un altro più ampio e più bello, avendone appena come Murger scritto il titolo sopra un quaderno nuovo. Poi mutava ancora, aprendo cento porte e non entrandone alcuna, qualche volta precipitandosi nello studio per lo studio e ritornando ancora alla velleità delle rivendicazioni, drizzando i suoi futuri volumi contro i muri della società per aprirvi una breccia, sulla quale passare raggiante di superbia.
Persino la gente del villaggio cominciava a sospettare qualche mistero in quella fanciulla sempre pallida, col viso sempre aggrondato. Non sorrideva mai; e, per un capriccio inesplicabile, aveva adottato il nero pel solo colore de' propri abiti.
I giovanotti più depravati del paese, che passeggiavano a tarda ora cantando stornelli da osteria o storpiando qualche duetto di opera imparato dalla banda, guardavano la finestra sempre illuminata di Ida, diventando seri loro malgrado nello sparlare di lei. Era l'ammirazione e l'incubo di tutti.
Ma di notte l'assalivano fiere malinconie.
Tutti quei bei sogni di gloria, quasi foglie scrollate da un vento freddo intorno ad una rovina, le cadevano mutamente intorno. Si sentiva ancora più inutile che sola, più piccola che inutile, nata in un villaggio, condannata forse a fare la maestra in un villaggio, costeggiando sempre le rive del mondo senza approdarvi, intendendo dei brani di musica, odorando delle folate di profumi, ma senza che nessuno si rivolgesse a guardarla confusa fra le immondizie addensatevi dal riflusso del mare. Quindi riviveva in un minuto di spasimo tutta la propria vita di oramai diciassette anni, riassaporandone tutte le umiliazioni, succhiandone tutto il veleno, e dopo questa ineffabile agonia di dolori si adagiava in un tedio infinito, smorto come il crepuscolo, umido quanto la nebbia. Vedeva il mondo in una visione fumosa, nella quale la vita perdeva ogni significato e tutti gli oggetti la loro individualità, onde non le rimaneva più se non aspettare una piega della bruma, che avviluppandola la togliesse alla funerea scena. E Ida l'aspettava colla lugubre indifferenza della disperazione. A diciassette anni provava il peso della esistenza e il vuoto del