No. Alfredo Oriani
ripeteva a Jela le lezioni facendogliene apprendere col misterioso magistero dei fanciulli nel comunicarsi le idee.
Il conte la osservava stupito, i maestri ne alzavano gli elogi.
Ella cresceva bruna e slanciata, i capelli nerissimi le crescevano di una lunghezza eccessiva, ondulati e pieni di riflessi azzurrognoli; aveva gli occhi enormi, le estremità di una finezza rarissima. Parlava già il francese e balbettava l'inglese. A dodici anni avea letto un romanzo, a tredici un'opera di filosofia, avea ammonizioni per Jela, disegni per sè stessa, risposte per tutti.
Un giorno il suo maestro di storia, lamentando la povera condizione della donna in società, le chiese se desiderasse essere un uomo.
—No.
—Perchè?
—L'uomo non s'innamora della donna,—aveva risposto la fanciulla, accomodandosi un riccio di capelli sul seno, che cominciava a gonfiarsi delle seduzioni della donna. Avea la natura del lusso. Mentre Jela ancora bambina ruzzava alle sottane della vecchia cameriera, ella errava sola e pensierosa pei vasti appartamenti, movendosi come un'ombra nella penombra dei cortinaggi, esaminando ogni mobile, incantandosi dinanzi ai ritratti delle belle dame e degli eleganti cavalieri. Quegli antenati erano come suoi e aveano vissuto la vita dei suoi sogni, giacchè l'orgoglio della fanciulla provava già il bisogno di avere un passato, intanto che i suoi desiderii si precipitavano verso l'avvenire. La luce degli specchi e dei damaschi le piaceva già meglio che la luce del sole e delle acque; la poesia di quelle stanze, composte ad una ignota vita, la commoveva più che la poesia del bosco coi decrepiti ippocastani e le elci melanconiche. Spesso sdraiata le lunghe ore sopra un immenso divano dorato, la testa sopra un cuscino a ricami, i piedi sulla seta, si smarriva di sogno in sogno. La lucida levigatezza delle stoffe aveva per lei misteriose voluttà, i gracili capolavori, che ingombravano i tavolini, incalcolabili ed arcane significazioni; ognuno di essi non poteva occupare se non quel posto, ognuno di essi era necessario, i fiori dei tappeti e le mitologie delle volte, i paracamini e le poltrone, i vasi di maiolica e le porcellane di Sassonia, i ritratti e gli specchi vuoti, che la riproducevano all'infinito, spingendola per una fila interminata di saloni verso il salone fatato, al quale le chimere della sua fantasia cercavano inutilmente una porta aperta.
Più di una volta erano venuti a cercarla in quelle fantasticaggini, ma vi ritornava appena potesse.
Un'altra volta il conte la sorprese abbandonata sopra una poltrona. Avea le gote accese, l'abito le lasciava scoperte le caviglie, la posa le ingrossava il seno. Egli s'incantò come un poeta dinanzi all'aurora di quella donna. Una sottile seduzione, un profumo primaticcio esalavano da quel corpo troppo tenero, ma coi contorni già molli e le finezze indecise. Ella sorrideva nella penombra cogli occhi socchiusi, e quella penombra, che la ingrandiva facendola forse sognare, la rendeva un sogno per un altro.
Il conte ristette sulle punte dei piedi. La fanciulla lo vide, ma s'infinse; forse dubitò, e la vita incomincia dal dubbio.
Ma la vecchia cameriera, d'accordo col prete, non era contenta di Ida, la quale non le pareva una fanciulla come le altre, con quella gentilezza intrattabile nelle proprie voglie e quelle risposte, quasi dicesse sempre il pretesto e non la ragione di quello che faceva. Alla sera, ripetendo le orazioni con Jela, pareva che Ida vi si prestasse per giuoco, mentre evitava costantemente la compagnia del prete per una ripugnanza istintiva. Quella figura servile, sempre in estasi davanti al signor conte, irritava la fanciulla. Talora a pranzo, a qualche dialogo, quando nella riconoscenza della ghiottoneria egli si sprofondava in adulazioni del peggior gusto, Ida gli piantava negli occhi i suoi occhi neri, audaci e profondi, che lo ardevano scrutandolo. Il prete s'impigliava, perdeva il filo delle frasi, col fremito di un solletico per le vene, cercando qualche rimprovero per sacrificarla a Jela; ma Ida si sapeva troppo forte, e vi consentiva di buon grado.
Però una volta egli toccò della sua cattiva posizione in società, e Ida impallidì. Da quel momento la guerra fu dichiarata; la fanciulla, spalleggiata dagli altri maestri, proruppe nella incredulità, sostenendosi così bene colla vivacità dell'ingegno e la molteplicità delle letture, che il prete uscì più di una volta confuso dalla discussione. Jela rideva senza capire, il conte comprendendo, ma spesso allontanava Jela. Eppure Ida aveva un vuoto nell'anima.
In quel ricco palazzo era sola, e non avea alcuno fuori del palazzo. La sua casa al villaggio col babbo e la mamma non era più sua, giacchè vi si sarebbe sentita ancora più straniera. Il padre, che vociava sempre, la mamma, che girellava in pianelle; in tutta la casa non c'era che una specchiera di noce e una poltrona di percallo. Nulla, nemmeno quell'isolamento aristocratico del palazzo, dove i servitori non la incontravano mai senza inchinarsi, e potea aggirarsi nel silenzio, sola, sognando dei sogni da imperatrice, uscendone in carrozza scoperta a farsi ammirare dalla gente. Si accorgeva che i suoi genitori vi sarebbero stati anche più ridicoli, mentre ella vi stava a meraviglia. E fra lei e loro s'insinuava un filo d'acqua che apriva il terreno in fosso, lo allargava in ruscello, lo gonfiava in fiume, ruinava in torrente, cresceva a lago, immenso, come un mare, più di un mare. Era sola, non aveva nulla da lamentare o da desiderare, eppure un malessere la sorprendeva di quando in quando, quasi un ribrezzo, un freddo, che le si rifuggiva nel cuore.
Il conte avea con lei la più perfetta cortesia, non le usava differenza colla figlia, ma nullameno tutti nel castello ne la distinguevano, persino i sopramobili, che si lasciavano infrangere da Jela con una muta ed inalterabile devozione.
Una mattina ella ruppe disgraziatamente un gruppetto di Sassonia, tagliandosi un dito ad una scheggia. Jela dal canto proprio avea fracassato un piccolo specchio di Murano, antichissimo. La cameriera, che sopravvenne, sgridò Jela con una carezza, perchè avea corso pericolo di ferirsi, e rivolgendosi secca secca all'altra:
—Quando la roba non è vostra, bisognerebbe andare più piano,—disse nella sua lingua.
Quella notte Ida invece di dormire pianse.
Ma quella vita e quegli appartamenti la trattenevano. Ne conosceva tutti gli angoli, tutti gli oggetti, tutte le figure; aveva fantasticato su tutto, riempiendo tutto di sè stessa, giacchè gli appartamenti vuoti dalla morte della contessa aspettavano una donna. Ella non avrebbe domandato se non di occuparli per sempre, senza uscirne mai e senza mutarli; ella sola, ma sola davvero come una misteriosa prigioniera o una fata anche più misteriosa delle sue leggende favorite, coi servi muti, il mistero intorno, profondendo l'infinito in quella inutile esistenza senza fiori e senza musica, senza genitori e senza Jela. Ella già donna, ma sempre colle sottane corte, senza far nulla, nutrendosi di quel lusso, odorando i fiori del tappeto, aggirandosi fra la folla dei ritratti, riposandosi ad immense distanze sopra uno sgabello od una poltrona ricamata... finchè un raggio di sole, illuminando l'occhio di un antico cavaliere, la faceva rivolgere, e sotto quello sguardo di un uomo Ida sentiva interrompersi il sogno.
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IV.
Quando Jela ebbe nove anni, la misero in un convento di monache, e le due fanciulle si divisero piangendo. Jela singhiozzava disperatamente, supplicando la sorella ad accompagnarla, ma quantunque il conte avesse potuto acconsentirlo, incaricandosi della spesa, non osò parlarne coll'ingegnere. Nè Ida d'altronde si sarebbe piegata a quella esistenza oppressa e malaticcia dei conventi, colla monotonia delle occupazioni e la fastidiosità religiosa degli insegnamenti. Pianta robusta, ella aveva d'uopo di vento e di sole; meglio la cima combattuta di una roccia, che la calma tepente di una serra.
Ma per quanto si sforzasse a dissimularlo, Ida avea i goccioloni agli occhi. L'ingegnere, il conte, una vecchia zia, la vecchia cameriera, il domestico di confidenza del conte, erano tutti presenti agli addii nel cortile, dove attendevano la solita superba carrozza e la carrettella dell'arciprete, giacchè le due sorelle, e si capiva ai veicoli, si dividevano per due mondi diversi.
Jela trasse Ida in disparte, la fece entrare in un salotto al pianterreno, poi costringendola a sedersi sopra un divano le saltò al collo, e facendosi così grave, che l'espressione dell'affetto le ricomponeva il viso travagliato dal pianto:
—Mi