No. Alfredo Oriani

No - Alfredo Oriani


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volta...

      Dirimpetto alla casa di Ida abitava una famiglia di due donnicciuole, due beghine, che si tenevano un nipote, povero gobbo malaticcio, dalla fisonomia livida e gli occhi verdi ed intelligenti. Le due vecchie zitellone, le quali passavano la vita lavorando dei fiori da chiesa e nelle ore d'ozio ripetendo le orazioni, adoravano quel ragazzo, cui avevano tardi insegnato a leggere e scrivere. Il ragazzo aveva quindici anni. Non conosceva compagni, non usciva quasi mai per il pudore ombroso della sua malattia; ma era amico di un vecchio cane e leggeva dei romanzi.

      Le zie, che lo credevano sempre un ragazzo, nella loro ingenuità glie li permettevano siccome giocattoli.

      Ida le conosceva appena. Le aveva incontrate più d'una volta nella bottega del sarto, si salutavano, anzi meglio la salutavano rispettosamente dalla finestra; invece conosceva quel ragazzo, e la loro conoscenza era nata di compassione. La fanciulla, che soffriva per il fermento delle vergini forze, si era impietosita allo spettacolo di quel povero ragazzo colle spalle nelle orecchie e le gambe contorte da uno scherzo feroce, lì sul margine dell'esistenza come un rifiuto immondo all'uscio di un'osteria.

      Questa ultima immagine le tornava spesso nella mente come una insolenza contro la natura.

      Il gobbo, comprendendo forse per l'arcana intuizione degli infelici la potente malinconia di quella testa, guardava sempre alla finestra di Ida, aspettando che ne cadesse uno sguardo o un sorriso. I loro più lunghi discorsi non aveano durato più di tre minuti, senza maggiore significato di un'elemosina che ella gli gettasse o di un gioco che la divertisse; nullameno, dacchè il gobbo stava tuttodì alla finestra, qualche cosa era passato fra di loro. Ida veniva più spesso al davanzale e vi si fermava col libro in mano, mentre l'altro, fingendo di ruzzare colle orecchie del cane, sbirciava in alto. Ma i loro sguardi s'incontravano, e dall'urto degli sguardi sprizzavano scintille di pensieri comuni. Nella fatica delle proprie febbri Ida più di una volta, addossata alla finestra, aveva avventato sul ragazzo la fiamma tigrina della propria pupilla. Ma sebbene per la età e per la sua natura fosse già iniziato a tutti i vizi dell'adolescenza, indietreggiava sotto quelle occhiate, egli che non potendo avere aspirazioni, aveva tutte le ritrosie e tutti i timori di una deformità.

      Ella lo discuteva.

      Una mattina le zie lo mandarono dal sarto per certa seta. Ida, in quel momento a discorrere coi padroni di casa, gli aperse la porta. Il ragazzo impallidì e si turbò talmente, che incespicando cadde. Ella lo prese sotto le ascelle e, sollevandolo robustamente, lo adagiò sopra una poltrona; poi seguitò ad interrogarlo accarezzandolo, quasi che fra loro corresse una immensa differenza di età ed egli fosse davvero un piccino.

      Il ragazzo si rinfrancò, espose il suo incarico e rimase qualche minuto ciarlando. Avea la voce dolce, e vi era tanta confusione ne' suoi gesti, che diventavano amabili.

      —Non mi dai la mano?—gli chiese Ida gaiamente, vedendolo rizzarsi.

      Egli arrossì, ma l'altra comprese, e piegando le gambe per farsi della sua statura:

      —Così, così, non è vero?

      Il ragazzo sorrise tutto contento.

      —Devi essere buono,—soggiunse pensierosa.

      —Le mie zie mi vogliono bene.

      —Esse sole?

      L'altro rimase guardando.

      —E tu vuoi bene a loro sole?

      —Non ti piacerebbe la signorina, Rocco?—interloquì la Lucia.

      Rocco aprì gli occhi, fissando la fanciulla con una ammirazione così intensa ed ingenua, che tutti risero.

      —Quanti anni hai?

      —Ormai quindici.

      —Vuoi che facciamo all'amore... dalla finestra? vuoi? Devi essere tanto buono! Ma tu leggi spesso, che cosa leggi?

      —Il Conte di Montecristo.

      —Se vorrai dei libri domandamene, ne ho anch'io. Addio, Leopardi.

      Il ragazzo non comprese quel nome ed uscì tutto ilare, ricomparendo subito alla finestra col cane.

      Ida gli fe' un cenno amichevole con la mano, egli sorrise. D'allora non passò giorno che non si parlassero.

      Era una domenica di febbraio, calda di sole. A quando a quando tepide ed indefinibili esalazioni passavano sulle vie della città formicolanti di gente in abiti da festa, che pareva più allegra in quella stupenda giornata a mezzo di un inverno troppo rigido di ghiaccio e frequente di nevi. Ida si appoggiava stanca al davanzale. Invano la Lucia avea messo tutto in opera per trarre seco ad una passeggiata la signorina, la sua dozzinante, come la chiamava colle amiche, giacchè per le stesse ragioni di vanità Ida rifiutava quasi sempre, e quel giorno vi si era ricusata anche più seccamente del solito. Le pareva di non poter camminare; piuttosto che vestirsi si sarebbe mille volte meglio spogliata in faccia a quel sole, che le allagava la camera prima di tramontare. Era sola in casa, aveva quasi caldo. Spalancò tutte le finestre, rigironzò per le stanze, fermandosi più lungamente nella bottega ad osservare gli abiti incominciati e quei due grandi figurini insinuati negli sportelli della credenziera. Ma quelle figure di uomini la indispettirono, tornò allo specchio. Le parve di essere più pallida e più bella; si sedette, girò ancora, andò alla finestra.

      Rocco l'aspettava: non lo salutò nemmeno.

      Il suo sguardo correva sull'azzurro colla fuga di una meteora; si sentiva battere il cuore e tratto tratto come il vellico di una carezza sul collo, che glielo stringeva al pari di un laccio. Poi il respiro se le ingrossò così che dovette rizzarsi, incolpandone tacitamente la posa sul davanzale. Il sole le batteva in faccia.

      Ma siccome le gambe cominciavano a tremarle, abbandonò barcollando la finestra per tornare allo specchio. L'enorme volume dei capelli, raccolti capricciosamente sulla nuca, le ripiegava la testa; aveva il corsetto troppo attillato, allentò un bottone, poi un altro, respirava a stento, ne allentò ancora, li allentò tutti. La camicia non più compressa dal busto le si allargò e, nella violenta tempesta che lo scuoteva, il seno soverchiolla con un bianco sorriso. Ida tremava. Le pareva di avere una camicia di piombo, di essere ammalata, agitava la testa e le mani. Avrebbe quasi voluto torsi dallo specchio senza quell'irresistibile bisogno di esservi come in due, seminuda e morente. Un immenso desiderio, caldo come il respiro di un cane, le saliva dai piedi alla testa; si sentiva come delle dita che le scherzavano nei ricciolini della nuca, dei soffi che le passavano sulle labbra, mentre il sole impallidiva esso pure guardandola, librato nel vano della finestra, smorto nella voluttà di un'altrettale agonia.

      Soffocava. Le palpebre abbassate, le mani frementi di carezze, tentò inutilmente un migliore atteggiamento e, sempre più violentata da quella smania, mormorò qualche accento colle labbra dischiuse dalla sete. Non vedeva, non udiva: vedeva solamente il sorriso dei propri denti nella lastra, provava il peso dei capelli, intanto che quel calore impotente la fasciava e l'incomodo della sedia le si acuiva in tormento. Ma le sue fibre compresse da quella attesa tropicale scattarono. Una treccia le cadde sferzando sulla schiena. Scinta, fremente, si cacciò in quel raggio di sole, e venne alla finestra.

      Rocco la dovette vedere come una apparizione. Con quella fiamma nelle pupille la fanciulla lo discerneva confusamente; gli fe' un cenno, egli rispose.

      —Vieni,—sussurrò con un gesto demente ma irresistibile, lo ripetè, poi come una pazza corse per le altre stanze alla porta dell'appartamento, e si appoggiò alla maniglia per non cadere. Ansava. Poco appresso intese per le scale lo strascicare di un passo, quindi dilatando gli occhi si alzò sulle punte dei piedi per non far rumore. Il passo si arrestò incerto alla porta.

      —Sei tu?—sibilò spiando per la fessura.

      Poi:

      —Entra.

      Entrò. Ida socchiuse, abbandonandosi sopra una sedia, ma si rialzò istantaneamente, lo prese per mano, lo trascinò nella propria camera.

      —Sei solo?

      —Sì.


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