Alla finestra. Enrico Castelnuovo
palazzone del seicento, la cui facciata guarda sul Canal grande, e un braccio di questo muro facendo angolo retto col lato principale viene ad occupare i due metri che fronteggiano l'imboccatura della calle, e le dà appunto in tal modo il carattere di via cieca. Il palazzo, dalla famiglia che l'ha edificato, è conosciuto sotto il nome di Cà Dareni e sul Canale fa abbastanza bella mostra di sè. Verso la calle invece esso non presenta che una muraglia sgretolata, nelle cui fessure cresce il musco, e che finisce in un cornicione sotto il quale han posto il nido i colombi. La porta, un po' piccina per quella mole ciclopica, ha un pregevole martello di bronzo raffigurante un Prometeo legato alla rupe. Sopra la porta, a tre piani diversi, ci sono tre finestroni difesi da grosse inferriate. Sono i finestroni delle scale. Del resto, lungo tutto il muro, per quanto è alto e largo, non ci si vede che una finestra, precisamente all'estremità interna del vicolo. Essa dà luce ad un gabinetto, che viene a terminare una fila di stanze, l'ultima delle quali guarda il Canalazzo e le altre guardano un rio. Il muro di Cà Dareni è alto e le catapecchie di rimpetto son basse, ragione per cui il sole conforta le lucertole che sbucano dalle screpolature del palazzo e non manda mai un raggio benefico alle creature umane le quali abitano nelle catapecchie. Quanto alla calle, essa nuota nelle tenebre tutto il giorno, ma è rischiarata la notte da un fanale a gaz posto sull'angolo. Nondimeno la mancanza assoluta di sole mantiene il selciato in una condizione semipaludosa che fa acquistare ai passanti la buona abitudine dei piediluvi. Dico passanti così per dire, perchè in verità non vi passano che gl'inquilini delle case e del palazzo, quando se ne eccettui forse qualche coppia sentimentale che trova il luogo propizio alle sue espansioni. Si sbaglierebbe però a credere che la calle fosse sacra al silenzio. Prima di tutto vi sono i rumori esterni, perchè la calle sbocca in una stradicciuola non larga ma brulicante sempre di gente. Poi c'è il fruttaiuolo sulla cantonata che vale per dieci. Dal giorno in cui la prima castagna raccolta sui monti arriva a Venezia fino al giorno in cui è lecito arrostire castagne, egli vende i suoi marroni caldi, e richiama i compratori gridando a squarciagola — Di bollio! Ma di bollio! Egli intende così di esprimere in pretto toscano che i suoi marroni bruciano anzi bollono, secondo la sua elegante dicitura. D'autunno egli lascia l'ufficio di urlare alla moglie, la quale magnifica in note di soprano sfogato la zucca santa e baruca, e non si stanca mai di ripetere Cò negra! Ma cò negra! Finalmente nelle sere d'estate i due coniugi a vicenda proclamano ai quattro venti i meriti delle loro angurie (cocomeri).
A ogni modo, nella Calle lombarda la conversazione è languida. Ciò dipende dall'esser tutte le finestre, meno una, da una parte sola, dimodochè per vedersi bisogna sporger la testa fuori del davanzale e rischiare di prendere un torcicollo. Aggiungasi poi che in questa infelice condizione di cose siora Annetta può discorrere con siora Gertrude che le sta muro con muro, ma stenta a scambiare i suoi pensieri con siora Veronica che abita quattro finestre più in là. Una conversazione generale è difficilissima e non si tiene regolarmente che il sabato dopo l'estrazione del lotto. Quando uno dei monelli che assistettero all'estrazione in piazzetta, passa davanti all'imboccatura della calle con le sue polizzine di numeri in mano e gridando Cò bei! siora Annetta, siora Gertrude, e siora Veronica balzano tutte alla finestra e una di esse chiama il ragazzo, cala il panierino col suo centesimetto e ritira la lista di cui legge poi ad alta voce il contenuto. Allora si discute sui numeri che naturalmente si trovano assurdi perchè non si è guadagnato, e si conclude che oramai non c'è più regola, e che anche la cabala è diventata vecchia e bisognerebbe cambiarla.
Abbiamo già detto che sul muro del palazzo, oltre ai finestroni delle scale a cui non s'affaccia mai nessuno, si apre una finestra. Precisamente di fronte ad essa, sulla linea delle casupole, c'è una finestretta molto invidiata dai vicini perchè è la sola che possa vedere dentro Cà Dareni. Non s'invidia però la persona che da tanti e tanti anni siede a quel posto e non se ne muove che per coricarsi sopra un letticciuolo lì presso. Povera Gegia!
II.
Fino a dodici anni ella era stata un amore di bimba. Aveva lunghi capelli biondi, occhi grandi e bruni e una personcina svelta, elegante, su cui i cenci facevano l'effetto di sete e di trine. Mòrtale la mamma mentr'essa era ancora in cuna, ella fu l'orgoglio del padre, gondoliere presso una famiglia signorile, il quale, rimasto vedovo, aveva preso in casa una sorella nubile per attendere alla fanciulla. Filippo (egli si chiamava così) godeva di una singolare reputazione presso i barcaiuoli come quegli che aveva vinto il primo premio in due regate, e che conosceva tutte le regole dell'arte sua. Lo nominavano padrino nelle sfide, lo invocavano a giudice nelle contese e quando una parola era stata detta da Filippo, nessuno rifiatava più. Egli era inoltre un avvenentissimo uomo e si pavoneggiava nella sua livrea blù coi galloni d'oro. I bimbi lo guardavano con ammirazione e le donne più ancora dei bimbi. Egli faceva buon viso alle donne ed al vino, ma mostrava d'amar sopratutto la sua Gegia, che a nove anni sapeva leggere correntemente, conosceva la dottrina come un canonico, e dava scacco matto per bellezza a quant'erano le fanciulle della parrocchia. L'accompagnava ogni domenica a spasso e di tratto in tratto la conduceva a visitare i suoi padroni che le regalavano o una chicca, o una moneta, o una vesticciuola. Di questi doni la moneta era il meno gradito per lei, giacchè suo padre la metteva in tasca ed ella non ne sapeva più notizia.
Anche i Dareni, patrizi molto boriosi e molto bene incamminati verso il fallimento, si degnavano di sorriderle e di carezzarla e avevano perfino consentito alle loro bambine d'invitarla a casa. La Gegia ci era entrata come in un castello di fate, era corsa per la lunghissima sala, aveva visto gli specchi e i lampadari di Murano su cui si frangevano i raggi del sole, aveva visto i quadri coi parrucconi e le poltrone dai grandi schienali dorati, aveva visto infine il conte Luca alzar dalle pieghe della Gazzetta di Venezia il suo naso monumentale, tirar fuori di tasca un fazzoletto di colore e soffiarsi con uno strepito da svegliare i morti. Ma il suo maggior gusto era stato quello di chiamare a nome dalla finestra del palazzo che dava sulla calle tutti i bambini di sua conoscenza e di salutarli con un bondì pieno di degnazione. Le aveva fatto poi un effetto singolare lo spinger gli occhi da colà entro la stanzuccia della sua casa.
Quest'amicizia della Gegia coi zentilomini suscitava certo qualche malumore, qualche invidiuzza, ma in complesso ella era benvoluta da tutti. Era buona, servizievole, facile ad affezionarsi, e la sua aria di contessina non le faceva sdegnare la compagnia di quelli ch'erano da meno di lei. L'avevano carissima anche nella fabbrica di conterie ove ella era entrata a undici anni e ove si distingueva per la sua assiduità al lavoro e per la sua intelligenza. Il signor Menico, il vecchio commesso che distribuiva le paghe il sabato, le pizzicava volentieri la guancia e ogni tanto le donava un cartoccio di perle colorate ch'ella portava a casa come un trofeo e con le quali si conquistava il cuore di tutti i bimbi del vicinato, comprese le contessine Dareni.
Quest'ultime però dovevano sparir presto dalla scena. Un bel giorno si seppe che il palazzo andava all'asta e che i Dareni si stabilivano in campagna. Infatti essi si dileguarono in silenzio lasciando dietro a sè un lungo strascico di debiti. Le contessine non si curarono punto di salutare la Gegia e la finestra sulla Calle lombarda si chiuse.
La Gegia ne provò un vivo dolore, ma in quell'età le afflizioni non durano a lungo e l'ingresso del nuovo parroco avvenuto dopo alcune settimane la compensò ad usura della conversazione che le era mancata. Che spettacolo quell'ingresso! Tappeti a tutte le finestre, iscrizioni per tutti i muri, festoni lungo le strade, e baracche sui campi ove si friggevano i galani, e si vendevano giocatoli. Il babbo, che nella pompa della sua livrea la teneva per la mano, aveva speso dieci centesimi per comperarle una specie di girandola, e l'aveva poi presa in collo in mezzo alla folla affinchè ella potesse veder meglio ogni cosa. In questa posizione eminente ella aveva letto quattro versi scritti in color verde sul muro della canonica nei quali si faceva giocare con molto spirito il nome e cognome del nuovo pastore:
Dei parrocchiani il core
Conforti Don Vittore,
Il cor dei parrocchiani