Alla finestra. Enrico Castelnuovo
donnicciuole gridavano in estasi: Siesta benedeta! Co'ben che la leze! Co'bela che la xè! Alla funzione in chiesa ella aveva poi saputo attirare perfino l'attenzione del parroco, che s'era informato con molta premura di lei.
A rendere ancora più memorabile quella giornata, la Gegia seppe che il palazzo Dareni era stato appigionato ad una famiglia forestiera, dimodochè fra poco si sarebbe riaperta la finestra prospettante quella della sua casa.
Ma, prima che ciò avvenisse, la fanciulla infermò di un male strano. Il medico della parrocchia non ci capiva nulla, un altro dottore che Filippo fece venire a veder la figliuola, disse che c'era un rammollimento della midolla spinale, che sarebbe occorsa una cura lunga, una di quelle cure che la povera gente non può fare a casa sua, e per le quali ci sono gli ospedali apposta. Ma alla parola ospedale la Gegia gridò come un'ossessa, Filippo dichiarò che sua figlia non andrebbe in quei luoghi, e le comari della calle dissero a una voce e con molta solennità che i medici non ne indovinano una. Si ricorse quindi ai sapienti consigli di una empirica, la quale si rese mallevadrice della guarigione in quindici giorni. E siccome le febbri che avevano prima travagliato la fanciulla andarono via via rimettendo della loro intensità fino a sparire del tutto, così si cantò vittoria. Siora Veronica, la moglie del falegname, giocò al lotto i numeri della guarigione, e guadagnò un ambo.
Fatto si è che la Gegia non tardò a poter essere levata dal letto e messa sopra una sedia, ma non c'era caso di farle fare un passo. Sarà debolezza — dicevano il padre e la zia e le vicine; ed aspettarono. Ma il tempo, il gran medico, non seppe giovare in nulla alla povera creatura. Le sue gambette che parevano fatte al torno si assottigliarono, s'incurvarono; pareva che un soffio maligno avesse arrestato lo sviluppo della leggiadra pianticella.
Con la beata spensieratezza della sua età, ella non dubitò un momento che sarebbe guarita; si metteva piena di fede certi empiastri che le erano suggeriti dalla ciarlatana, e faceva assegnamento sulla buona stagione. Il male l'aveva colta d'autunno, poi era sopraggiunto l'inverno, ma dopo l'inverno veniva la primavera, e con la primavera, chi non lo sa? rinasce tutto a questo mondo.
Intanto s'era fatta trasportare nella cameretta, la cui finestra guardava nella calle, e prospettava quella del palazzo Dareni. Questa cameretta si apriva sulla scala, e aveva servito fino allora come luogo di passaggio, ma la Gegia la preferiva alla stanza ove aveva dormito per lo addietro, appunto per poter vedere i nuovi inquilini del palazzo e sentire nella calle le voci dei suoi compagni di giuoco. Ed ogni mattina, o si strascinava ella stessa carponi, o si faceva collocar dalla zia sopra una sedia vicino alla finestra. Teneva uno sgabello piuttosto alto sotto i piedi, e con una ciotola di conterie sui ginocchi e un mazzetto d'aghi in mano passava tutta la giornata a infilar perle. Dietro i vetri foschi e giallastri si vedeva così da mane a sera la sua testina di Madonna, più spesso curvata sull'opera sua, talora volta all'insù a cercar l'azzurro del cielo, e talora intenta a guardar dentro il palazzo che s'era riaperto.
III.
Era venuta ad abitar Cà Dareni una ricca famiglia tedesca e il gabinetto di fronte alla cameruccia della Gegia serviva di abbigliatoio ad una ragazza di tredici anni, già alta di statura e in via di acquistare proporzioni matronali. La chiamavano Lotte (Carlotta), aveva occhi azzurri, capelli castani, di cui le scendevano due lunghe treccie giù per le spalle; le rosee guancie davano l'immagine della salute. Con un po' di tempo sarebbe certo divenuta una bella ragazza. Quando vedeva la Gegia le sorrideva. Ma la vedeva poco, perchè era d'inverno, ed essa sollevava di rado le cortine, e più raramente ancora apriva la finestra.
La buona stagione non portò alla Gegia alcun miglioramento. I fanciulli del vicinato ripigliarono i loro giuochi nella calle, le rondini tornarono a far sentire i loro trilli armoniosi, ma ella era inchiodata nella sua sedia a infilar perle. Un dolore inatteso le aveva poi recato lo strano contegno di suo padre verso di lei. Nei primi tempi della sua malattia egli le aveva prodigato ogni sorta di cure; adesso, non isperando più ch'ella guarisse, era freddo, ingrugnato, le teneva il broncio. Gli è che Filippo, nel fondo, era un grande egoista. Aveva amato sua figlia finchè la bellezza di lei, gli elogi che le venivano diretti, lusingavano il suo orgoglio; adesso la commiserazione ch'ella destava negli antichi conoscenti muoveva la sua stizza, gli pareva un'offesa; adesso sarebbe stato lieto di poter dimenticare che aveva una figlia. Aveva amato il suo sorriso, non amava la sua mestizia e le sue lagrime; l'aveva amata ritta, svelta della persona, vispa delle movenze; non sapeva più amarla così rattratta, così pallida, così diversa insomma da quella ch'ella era. E cercava ogni pretesto per venire a casa meno che fosse possibile. Finalmente disse un giorno che d'ora in poi doveva passar la notte nel palazzo dei padroni, ed era vero, ma era vero altresì che aveva sollecitato egli stesso questo favore e che per ottenerlo s'era offerto di far la guardia al padrone vecchio, il quale contava più di settant'anni, e aveva bisogno che qualcheduno gli dormisse nell'anticamera. Presa questa risoluzione, Filippo lasciava trascorrere anche una settimana senza veder la sua figliola e credeva di adempir largamente a' suoi doveri di padre pagando la pigione di casa, e dando a sua sorella un piccolo peculio per mantenere sè e la Gegia. Ma queste poche lire non avrebbero bastato nemmeno a toccar la metà del mese, se non vi si fossero aggiunti i quattrini che la fanciulla continuava a guadagnarsi anche dopo la malattia col suo mestiere di infilatrice di perle. E l'ottimo signor Menico le portava in persona ogni sabato il suo salario, e non poteva capacitarsi che la più vispa delle sue operaie fosse ridotta così. Ma in cospetto di lei si mostrava pieno di fiducia, le discorreva dei miglioramenti introdotti nella fabbrica, dei nuovi locali che si erano aperti, e del posto ove la si sarebbe messa, quando fosse guarita. Ella stava intenta ad ascoltarlo, e sperava, e rinfrancata dalle sue visite, subiva con animo paziente l'abbandono del padre e gli umori bisbetici della zia Marianna. Costei non era cattiva ma brontolona, ed era affetta da una sordità che cresceva ogni giorno. Diceva che la Gegia non aveva voce affatto, ma s'arrabbiava poi s'ella gridava un po' forte, come se avesse da discorrere con una sorda. E nella sua stizza si chiudeva in cucina e faceva al gatto lunghe e feroci requisitorie contro la nipote, che sentiva benissimo le impertinenze a lei dirette, e sospirava.
Nell'aprile di quel primo anno di malattia, una bella mattina, la Lotte spalancando le imposte si affacciò al davanzale della sua finestra. Aveva un bianco accappatoio sulle spalle e doveva ancora pettinarsi.
Ella vide la Gegia nel solito posto.
La Lotte aveva imparato un po' d'italiano, e raccogliendo tutte le sue cognizioni, chiese:
— Come ti chiami?
— Gegia, signora.
— E stai sempre a quella finestra?
— Sempre.
— O perchè non ti muovi?
La poveretta arrossì, e sentì venirsi le lagrime agli occhi.
— Sono malata — rispose.
— È vero. Sei un po' pallida. O che cosa hai?
— Ho male alle gambe.
— Da un pezzo?
— Da sei mesi.
— Oh, ma guarirai certo.
— Sì, spero, quest'estate.
Da quel giorno le conversazioni fra le due finestre si rinnovarono spesso. La Lotte era riconoscente alla fanciulla della buona cera ch'essa le faceva. In quel tempo (era nel 1862) i Tedeschi non erano avvezzi in Venezia ad esser trattati con cordialità.
— Che cosa fai? — domandò un dì la forestiera alla Gegia, vedendola occupata in un lavoro diverso dall'ordinario.
— Faccio un sottolume di perle a colori.... tanto per distrarmi.
— Dovresti vendermelo.
— Oh! Venderglielo, no.
— Perchè?
— Perchè vorrei regalarglielo.... se non si offende....