Alla finestra. Enrico Castelnuovo
dopo l'avvenimento della lettera, ella sentì salir dalla strada la voce della Lotte, il fruscio della sua vesta, lo scoppiettar del suo riso. Cò presto la ghe xè passada! dissero le comari della calle vedendola vispa, ilare, elegante. Il romanzo della Gegia era andato in fumo, la sua amica era sempre felice, ed ella piangeva a lagrime dirotte.
Col chiudersi della finestra di facciata s'era chiusa per la Gegia una gran parte del suo piccolo mondo. Ella passava intere giornate senza scambiare una parola, chè con la zia Marianna era inutile discorrere e le sue vicine non capitavano che di rado a visitarla. E poi queste visite erano quasi sempre una fonte di mortificazioni per lei. Ogni momento le si diceva: — Sai, la tale si marita a Pasqua e la tal'altra fa l'amore con questo o con quello. — E qualche volta era la fidanzata stessa che veniva a darle la buona nuova. Veniva tutta in fronzoli, fresca, rosea, ridente, mostrando le buccole che le aveva regalato el novizzo, vantando, col freddo egoismo dei felici, la buona ventura che l'era toccata e descrivendo in lungo e largo i suoi piani per l'avvenire.
Povera Gegia! E pensare che queste ragazze erano, da bimbe, men belle di lei. Pensare che suo padre, il quale allora l'amava, non si stancava di ripetere: — Come la mia figliuola non ce n'è una in tutta la parrocchia! — Adesso ella conservava ancora un pallido ricordo di quel suo profilo di vergine, conservava i suoi bei capelli biondi, i suoi grandi occhi bruni. Ma quegli occhi erano scemi dell'usato splendore, e giravano intorno null'altro esprimendo che una mestizia quasi rassegnata; ma le guancie avvizzite avevano ormai la tinta giallastra della cera. Nel suo complesso aveva il curioso aspetto di una bambina vecchia. La statura, la sottigliezza delle braccia, la curva appena visibile del seno, le avrebbero fatto dare tredici anni al più, ma guardandola in viso, specialmente se vinta dalla stanchezza ella chiudeva un istante gli occhi, si sarebbe detto: È una donna di trenta. Nel fatto, al momento di cui parliamo, non ne aveva che sedici.
VI.
Era il principio del 1866. L'aria era piena d'elettricità. Si sentiva vicina una nuova guerra, l'ultima forse, quella che dopo tanti amari disinganni avrebbe finalmente riunito Venezia alla patria comune. Non si discorreva d'altro; due nomi che da sì lungo tempo erano nel cuore di tutti, tornavano sulle labbra e si ripetevano dagli adulti, dalle donne, dai fanciulli con una baldanza che nulla valeva a temperare: Vittorio e Garibaldi. I muri erano coperti ogni notte di questa iscrizione bizzarra: Viva VERDI. Era un anagramma a cui il celebre maestro di musica prestava ben volentieri il suo nome, e significava Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia. La polizia aveva un bel dar di bianco al voto sacrilego; era lavoro di Sisifo. I monelli canticchiavano sommessamente per le strade l'inno di Garibaldi; gli adolescenti aspettavano con impazienza che venisse il giorno opportuno di passare il confine; dietro le vetriate dei merciai facevano capolino le stoffe verdi, rosse, bianche, mal dissimulate dalle lane e dalle sete d'altri colori.
Di tutto questo rimescolìo la Gegia capiva qualche cosa delle chiacchiere delle vicine, ma le informazioni più esatte le riceveva dal signor Menico, quand'egli veniva il sabato a pagarle la sua settimana. Il signor Menico era stato guardia civica nel 1848-49, e se lo tiravano in lingua raccontava come uno degli ultimi giorni dell'assedio, essendo in fazione davanti una caserma in Cannaregio, da cui si vedevano i forti, una palla di cannone era piombata sul tetto d'una casa vicina, e dopo molti giri e rigiri era caduta a due passi da lui portandosi dietro la grondaia. — Capite? a due passi! egli diceva. E ingrossava la voce e tentennava il capo con aria d'importanza come a significare: Una cosa simile è toccata a pochi! Malgrado di ciò il signor Menico non era un leone, e con la teoria che i muri parlano, egli lasciava volentieri da parte la politica. Ma adesso, con la Gegia, egli si faceva coraggio e dopo averle chiesto regolarmente se la zia Marianna continuava ad esser sorda, le raccontava le novità del giorno, e le assicurava sulla sua parola d'onore che questa volta i Tedeschi se ne sarebbero andati davvero. Glielo aveva detto persona che non era solita ad ingannarsi. E la Gegia a poco a poco andava infiammandosi per questa idea della patria che non le riusciva ben chiara, ma che pur doveva essere assai bella, e che forse l'era tanto più accetta quanto più le dava da pensare e la distraeva dalla muta contemplazione delle sue miserie. Del resto, gl'infelici sono rivoluzionari per loro natura. Chissà che il mondo cambiando non diventi migliore per essi, chi sa che le loro pene non si alleviino, che l'egoismo altrui non si corregga! Se avessero domandato alla Gegia: credi tu che gli Italiani restituiranno il vigore alle tue membra, faranno giungere alla tua finestra il sole alla tua anima sitibonda l'amore? ella avrebbe, sospirando, risposto di no; ma poichè nessuno glielo chiedeva, ella si nutriva, inconsapevole, di dolci illusioni. Pur la martellava un pensiero, il pensiero della Lotte che, quantunque dimentica di lei, ella non aveva cessato di amare. Che sarebbe avvenuto della giovinetta col mutar delle cose? Avrebbe ella dovuto soffrire? S'era pur scritto anche sul muro di Cà Dareni — Morte ai tedeschi — e quando nella calle giungevano gli accordi del pianoforte della Lotte e il suono del suo canto, i monelli, ormai imbaldanziti, urlavano Canta, canta, che presto te tocarà pianzer. Oh se la Gegia avesse potuto consigliarla a fuggire! Ma non ci fu bisogno del suo consiglio, perchè una settimana prima della dichiarazione di guerra il conte di Rheinstadt risolse improvvisamente di andarsene con la famiglia. La Gegia non ne sapeva nulla quando una mattina vide aprirsi improvvisamente la finestra del palazzo e comparire la Lotte in abito e cappellino da viaggio.
— Addio, Gegia.
— Oh, va via? — rispose questa, che avrebbe voluto dirle tante cose.
— Sì, addio di nuovo, chè se i miei genitori sanno che sono venuta di qua, mi fulminano.
— E — balbettò l'altra — non ci vedremo,... più?
— Sì, di qui a un mese.... Questa volta metteremo presto giudizio ai matti....
— E se si vince noi, invece?
— Chi? noi...? Oh, anche tu, Gegia, — esclamò la Lotte col tuono del tu quoque, Brute. Poi soggiunse ridendo: — Va là, che non c'è questo pericolo. — E volò via. Pochi minuti dopo un servitore che rimaneva a custodia del palazzo venne a richiudere le imposte.
Nel 1866 Venezia attraversò un periodo di alcune settimane che fu tra i più curiosi ed originali che si riscontrino nella storia. Abbiamo mille esempi dell'ansietà di un popolo che attende da una guerra il proprio riscatto e di questa guerra segue con animo intento le varie vicende, ma non son molti i casi nei quali una intera città per venti e più giorni esulta della indipendenza conquistata sotto gli occhi dei nemici che si trovano ancora entro le sue mura, e che di feroci e spietati ch'erano prima diventano indifferenti e quasi benevoli e assistono, con l'arma al braccio alle dimostrazioni fatte contro il loro governo. Uno spettacolo simile l'offerse Venezia dalla metà di agosto al 19 ottobre di quell'anno 1866. Sottoscritto l'armistizio, si trasse come un gran sospiro dai petti. Finalmente! Finalmente se ne vanno! Dopo tante disillusioni, dopo tante lagrime, dopo tanto sangue è giunto il gran giorno! e la vita del paese era tutta in questo pensiero, e ciascuno aveva bisogno di espandere la sua gioia, di narrare agli altri ciò che gli altri sapevano, e di farsi narrare ciò che un momento prima egli stesso aveva narrato. Le cose ripetute cento volte non perdevano mai della loro novità, erano come una musica divina che l'orecchio non si stanca di intendere. Nè si parlava più a bassa voce come per lo addietro, nè si cercavano i crocchi fidati degli amici; era amico chiunque favellasse italiano. Si consumava la giornata nelle vie, in piazza, ai caffè. Di tratto in tratto circolava per le bocche una voce. Son passati pel Canalazzo, son scesi al Municipio o al Comando militare due, tre ufficiali del nostro esercito venuti a trattare degli alloggi, delle formalità della consegna, ecc., ecc. Talvolta era vero, talvolta no; nondimeno bastava il dubbio perchè nessuno rimanesse fermo, ed era un correre, un urtarsi, un farsi strada a furia di gomiti per giungere sino al luogo indicato, ove molto spesso si restava con un palmo di naso, perchè gli ufficiali o erano già partiti, o non erano neppure arrivati. Ma se spuntava un kepy, le grida, gli applausi non terminavano più, e lungo il passaggio della gondola che accompagnava i parlamentari alla stazione la gente si accalcava ai traghetti, sulle fondamente, alle finestre, sventolando i fazzoletti e salutando di giocondi viva i fratelli che