Alla finestra. Enrico Castelnuovo

Alla finestra - Enrico Castelnuovo


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infantilmente giù per la schiena, ma le erano raccolte intorno al capo; il vivo rossore delle sue guancie aveva ceduto il posto ad un leggero incarnato, la faccia già un po' troppo piena e paffuta s'era affilata alquanto e ridotta di un bell'ovale; il collo lungo, ben tornito, sottile, si posava superbamente sopra un magnifico giro di spalle degne d'esser modellate da uno scultore. Dall'autunno non era forse cresciuta in altezza, ma sembrava che fosse, tanto aveva acquistato ormai l'aspetto d'una ragazza fatta.

      La Gegia le esternò la sua ammirazione; ella fece spallucce e sorrise. Era avvezza ormai a ben altri omaggi!

      — Ho continuato a intagliar fiori di carta, — osservò la povera inferma, credendo di dir cosa grata alla Lotte. — Oh come debbo esserle riconoscente per le lezioni che mi diede!...

      — Bah! — rispose la tedesca con indifferenza. E mutò argomento. — E io ho ballato, cara mia ho ballato tutto questo inverno, ciocchè è meglio che far fiori di carta. Avevo ballato anche negli anni scorsi, ma non tanto, e non col gusto di quest'anno.... Che effetto singolare quell'esser portate in aria.... Tutto si confonde insieme, il suono, la luce, l'alito....

      Ma si fermò a questo punto, chè le parve di veder una nube sulla fronte della sua disgraziata interlocutrice. Tolse da un vaso un mazzolino di fiori, e presa la mira lo gettò in camera della Gegia. — Ti servirà pei tuoi lavori, — le disse. Poi, dimentica del riserbo delicato che le aveva fatto poc'anzi interrompere il suo discorso, soggiunse: — Ma non ti darei per tutto l'oro del mondo quella viola lì. — E additò un fiore che era in un bicchiere, posato sul marmo del suo lavamano. — Oh quella viola non la darei a nessuno, a nessuno.

      E si allontanò canticchiando la ballata di Goethe:

       Es war ein König in Thule

       Gar treu bis an das Grab....

      La Gegia non era in grado di fare uno studio psicologico nè sugli altri, nè su sè stessa; ella capiva soltanto che in quei pochi mesi un mondo di pensieri nuovi, di nuove impressioni, di nuovi affetti s'era spalancato dinanzi alla Lotte, e che in quel mondo ella ci era entrata come una regina. Ormai a parlare con lei le sembrava di discorrere con una persona che fosse sulla punta di un campanile; tanto ci correva tra loro! La fortunata fanciulla (chè, grande e grossa com'era, non toccava ancora i quindici anni) aveva la coscienza della sua bellezza, della sua forza, e la lasciava trasparire con la baldanza dell'età sua. Bisognava veder la mattina, quando faceva la sua toilette, come si compiaceva a guardarsi nello specchio! Certa di non aver di fronte altri che la Gegia, ella spesso non si curava nemmeno di abbassar le tendine e terminava di vestirsi a finestre aperte. Eppur la Gegia la divorava cogli occhi come se fosse stata un giovinotto, ed ammirava quelle spalle che parevan tagliate nel marmo, e le curve del seno mal dissimulate dal candido lino, le braccia ignude fin sotto le ascelle e arrovesciate dietro la nuca ad annodare le diffuse treccie dei lunghi capelli. E sentiva in cuor suo come un misto d'invidia, di desideri ancora mal noti, di sfiducia desolata e profonda. Era ella pur nell'età in cui nella fanciulla si sveglia la donna, e acquistavano un senso per lei tante frasi udite, tante cose vedute, e il sangue le correva nelle vene più infiammato, più rapido. Adesso capiva davvero il cinguettìo delle coppie innamorate che ad ora tarda venivano a dirsi qualche paroletta furtiva sotto la sua finestra, e adesso intendeva ciò che significava l'esser novizze, come le si narrava or dell'una, or dell'altra delle ragazze, che, un po' più grandicelle, avevano, anni addietro, giuocato con lei. E, coricatasi, vegliava a lungo pensando, e si voltava e rivoltava nel suo letticciuolo; poi quando cedeva alla stanchezza e chiudeva gli occhi, i sogni si calavano in frotta sul suo capezzale. Era, in sogno, bella anche lei, bella come la Lotte, aveva anche lei il suo moroso, era fidanzata.... Poi si destava in sussulto, la fredda realtà le si parava dinanzi, e piangeva.

      Una notte, nella quale non le riusciva di quietarsi, intese aprire adagio adagio le imposte della finestra dirimpetto. Tese l'orecchio e distinse la voce della Lotte, a cui una voce d'uomo rispondeva dal basso. Stettero forse cinque minuti a scambiarsi delle parole in tedesco; poi si udì lo scoccare di due baci, di due baci innocenti, intendiamoci, perchè l'uno scendeva da un primo piano alla strada, l'altro saliva dalla strada a un primo piano. Ma i baci mandati fanno più strepito dei baci dati e quel suono impedì alla Gegia di dormire anche il resto della notte. La mattina poi, quando la Lotte si affacciò alla finestra, ella le mise addosso certi occhi, che quella, contro il suo solito, divenne rossa, parve confusa, ed abbassò il viso.

      La Gegia non potè a meno di lasciarsi scappar dal labbro. — Oh sia sicura che non dirò niente.

      — Di che cosa? — rispose la Lotte facendosi di tutti i colori.

      — Oh bella.... di questa notte.

      — Che intendereste dire? — replicò la tedesca rizzando il capo in aria corrucciata ed altiera.

      Alla Gegia vennero le lagrime agli occhi. — Scusi, — balbettò, — io non ci ho colpa.... non dormivo....

      — Passate la notte alla finestra?

      — No, no.... ma sentivo ugualmente... Del resto non potevo capir nulla.... Non capisco mica il tedesco, io.

      — Ebbene! che male c'è? Era il cameriere di una mia amica che veniva a domandarmi se la sua padroncina aveva lasciato da me il suo ventaglio.

      Non ci voleva un grande acume a capire che questa era una bugia, ma la Gegia non aggiunse parola. La Lotte chiuse la finestra dispettosamente, e non si fece più vedere per alcune ore. Ma sulle due ricomparve con cera rabbonita, si guardò intorno e chiese alla Gegia — C'è nessuno da te?

      — Sì, c'è la zia — rispose l'altra cui non pareva vero d'essere interrogata amichevolmente.

      — Che seccatura!

      — Oh, la sta sempre in cucina e sente appena le cannonate.

      — Ebbene, vengo, dopo tanto tempo, a darti una nuova lezione di fiori.

      E queste ultime parole le pronunciò ad alta voce, come se desiderasse che fossero intese.

      La Gegia aveva lasciato dormire da alcune settimane quei suoi lavorucci di carta, e teneva tutto chiuso in un cassetto del suo tavolino. Aveva bisogno di guadagnar quattrini e perciò doveva attendere a infilar perle e preparar qualche ninnolo di conterie, che il buon Menico vendeva per lei. Adesso tirò fuori dal tavolino la carta a colori, i modelli e gli arnesi che le erano stati regalati dalla Lotte, e stette in aspettazione della bella vicina.

      — Buondì, Gegia — disse la Lotte entrando senza preamboli, e voltandosi con una certa compiacenza a raccoglier la coda della sua lunga vesta di percallo, che s'era impigliata nell'uscio. — Stamattina fui cattiva, ma che diamine? Se ti sentivano.... Basta.... À quelque chose malheur est bon.

      — Le domando scusa di nuovo...

      — Ci hai creduto alla storiella del cameriere?

      — Ma.... sì.

      — Baie! Hai una testolina troppa svelta.

      La Gegia non rispose. Dopo una pausa di qualche secondo, ella disse: — Non siede?

      — Chè! Bisogna ch'io me ne vada subito.... I miei genitori sono andati a fare una visita. Se tornano e non mi trovano in casa, sto fresca.

      — Ah! Credevo fosse venuta per i fiori — osservò la Gegia guardando un po' mortificata tutta la roba ch'ella aveva messo sul tavolino apposta.

      — No, no, i fiori non c'entrano — replicò la Lotte. E si diresse verso un cassettone sul quale erano collocati alcuni gingilli in conterie. — Oh! il bel panierino! Oh il bel monile! Come mi piacerebbe averli!

      — Li prenda.

      — Purchè non sia come l'altra volta, sai. Voglio pagarli.

      — Valgono così poco...

      — Alle corte. Se non lasci ch'io me li pigli e li paghi, vado in collera.

      — Che debbo dirle? Faccia lei.

      —


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