Alla finestra. Enrico Castelnuovo
Oh questa roba qui non val nulla.
— Senti, Gegia, accetto il tuo regalo ad un patto.
— Quale?
— Che tu mi permetta ch'io t'insegni un lavoro che ti distrarrà ancora di più.
— Oh magari? E sarebbe?
— Vedrai.
Così dicendo la Lotte si ritirò dalla finestra e scomparve.
Di lì a pochi minuti la Gegia sentì bussare all'uscio della scala, chè quanto alla porta di strada essa soleva rimaner socchiusa gran parte del giorno.
Tirò il cordone ch'era a portata della sua mano ed aperse.
Quale fu la sua maraviglia allorchè si vide dinanzi la Lotte in persona accompagnata dalla cameriera, che per dir la verità aveva un'aria scura ed uggita!
— Non c'è in casa nè il babbo nè la mamma — disse la ragazza — e ho voluto prendermi un po' di vacanza. — Poi rivoltasi alla cameriera, soggiunse in tedesco. — Dà qui. — La donna tolse, brontolando, un involto enorme di sotto il braccio, e lo consegnò alla sua padroncina che lo posò sopra il tavolino, e lo aperse. C'erano fogli di carta di tutti i colori, forbici, fili di ferro, ecc., ecc. La Gegia guardava esterrefatta.
— Non capisci? Voglio insegnarti a fare i fiori di carta?
— Oh! — esclamò la Gegia, battendo le mani per la contentezza.
— Non c'è da sedersi in questa camera? — ripigliò la tedesca. E in pari tempo andò in cucina, ove la zia Marianna stava attizzando il fuoco, prese due seggiole di paglia, una per sè, l'altra per la sua cameriera, e senz'aggiunger parola tornò dalla Gegia.
La sorda, sbalordita da quell'apparizione, le corse dietro col ventolo gridando: — Ehi chi è là? Chi è là?
La Lotte diede in una risata sonora.
Quando la donna riconobbe la signorina dirimpetto cominciò una filza di scuse e di complimenti. La ragazza le rispose qualche cosa, ma visto che l'altra intendeva a rovescio non si occupò più di lei, e si consacrò tutta alla sua lezione.
— To' — diss'ella ad un tratto picchiandosi il fronte. — Ci manca il meglio. — E con un ordine breve e con un gesto imperioso mandò la cameriera a prendere quello che le mancava. Costei uscì borbottando e in un paio di minuti fu di ritorno con un mazzolino di fiori. C'era una camelia bianca cinta di violette.
— Ecco — osservò la Lotte pigliando il mazzolino — gli esemplari dipinti e gli stampi sono belli e buoni, ma quando non s'abbiano i fiori vivi davanti non se ne fa nulla.
La Gegia mostrava una singolare attitudine ad imparare, e la sua maestra la lasciò dopo un paio d'ore assai soddisfatta.
— E questa roba? — chiese timidamente la Gegia.
— Che roba?
— Questa carta, questi modelli?
— Ti regalo tutto, diamine.
— Oh, ma è troppo....
— Ti ripeto che ti regalo tutto, e basta. Non sono avvezza a sentirmi contraddire. Del resto anche tu mi regali il sottolume.... Via, non vo' sentir altro, — e le pose la mano alla bocca, — ripiglieremo la nostra lezione domani, posdomani, quando vuoi. — Le carezzò i capelli e senza lasciarle tempo a rispondere fu fuori della porta.
La Gegia era tra commossa e confusa. Pur pensava che non poteva trascurare troppo il suo mestiere, e che avrebbe quindi dovuto rallentare un po' la foga della sua amica. Ma non ce ne fu punto bisogno; la Lotte era stranamente volubile, e corsero parecchi giorni prima ch'ella riparlasse dei fiori di carta. Intanto la Gegia faceva singolari progressi da sè, e non ci volle molto prima ch'ella ne sapesse quanto la maestra.
Una volta la Lotte comparve con un signore vestito di nero.
— Ho condotto qui il nostro medico, — ella disse, — voglio ch'egli ti veda.
La Gegia arrossì.
— C'è quella noiosa di tua zia?
— No, è fuori.
— Tanto meglio.
Il medico non sapeva una parola d'italiano, onde la Lotte doveva servirgli d'interprete. Fu un interrogatorio in tutte le regole sulle origini del male, sui sintomi, sulle sofferenze, ecc., ecc. All'interrogatorio succedette un esame. Il dottore fece uno sproloquio alla Lotte in tedesco, indi si ritirò con lei.
Per quel giorno la Lotte non si lasciò vedere alla finestra del gabinetto. Il dì appresso ella ritardò a sollevar la cortina.
E la Gegia aveva tanta impazienza di saper da lei che cosa aveva detto il dottore!
Finalmente, quando le due fanciulle si videro, la Lotte pareva imbarazzata.
— Dunque? — chiese la Gegia, — il medico?....
— Ah! Il medico disse che.... guarirai... con un po' di tempo.
E la Lotte finse che qualcheduno la chiamasse per poter allontanarsi subito dalla finestra.
Fatto si è che il medico aveva giudicato la malattia della fanciulla non esser guaribile. Se fosse stata ricca, se avesse avuto i mezzi da fare una cura lunga e regolare, ci sarebbe stato da tentar qualche cosa, ma nelle condizioni in cui ell'era bisognava rinunciarvi. La Lotte se ne dolse vivamente, ma ella non poteva pretender che la sua famiglia sostenesse per un'estranea le spese d'una cura come quella che il dottore reputava necessaria; così era forza ch'ella si rassegnasse. Del resto si finisce sempre col rassegnarsi ai mali degli altri.
Quanto alla Gegia, ella non poteva a meno di dare un triste significato alle parole mozze della sua protettrice. Si disperò e pianse. Ma ella era in una età nella quale le illusioni ripullulano facilmente; aveva sperato nella primavera e poi nell'estate, e adesso andava via via persuadendosi che la primavera era stata troppo rigida e che l'estate era troppo soffocante.... Forse in autunno, chi sa? o, in ogni caso, a un'altra primavera.
IV.
Succedette un inverno freddissimo. Nevicava ogni secondo giorno, e la Gegia stava rannicchiata sulla sua sedia collo scaldino allato tanto da poter posarvi di quando in quando le mani che intirizzivano. La neve, cacciata dal vento, si era rappresa sugli sporti, sulle inferriate, nelle screpolature del muro di faccia, e spenzolava dal cornicione del palazzo come il drappo d'un baldacchino, e orlava le imposte della finestra della Lotte che appena ogni due o tre giorni sollevava un momento le cortine e salutava con un cenno l'amica. Giù nella calle c'era un gran baccano. I monelli si rincorrevano gettandosi addosso la neve a manate, e la Gegia sentiva quel chiasso, sentiva le palle di quel bombardamento da burla frangersi sulle porte e sui muri, e il gridio dei fanciulli, e le voci corrucciate dei babbi e delle mamme, e pensava con che voluttà si sarebbe ella pur commista all'ilare schiera. Ma a dover stare così immobile, infilando perle alla luce colata che scendeva dall'alto, quei fiocchi bianchi che venivano a posarsi in silenzio sul suo davanzale le mettevano una malinconia da non dirsi. E salutò con entusiasmo i venti di marzo che portavano via le ultime traccie di neve, e salutò i colombi, che rinfrancati, non uscivano più dal loro nido soltanto una volta al giorno per andare al tocco delle due in piazza San Marco, ma passeggiavano sul cornicione, traversavano la calle e si posavano sulla sua finestra a beccolarvi le briciole di polenta ch'ella spargeva colà apposta per loro.
— Come sono interessanti quelle bestiuole! — esclamò una mattina la Lotte affacciandosi al balcone dopo tanti mesi, e come se ripigliasse un discorso interrotto pochi minuti prima. — E che bene si vogliono! E che baci si danno!... Che cos'hai, Gegia? Perchè mi guardi come una bestia rara?
Ciò che la Gegia guardava era il gran mutamento operatosi nella sua amica durante quell'inverno.