Vita di Guarino Veronese. Remigio Sabbadini

Vita di Guarino Veronese - Remigio Sabbadini


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una terribile invasione di Ungheri; Padova, Vicenza, Verona vennero conquistate e saccheggiate. Lo Studio di Padova si chiuse, il Barzizza si rifugiò a Ferrara, lo Scola a Verona e di là a Cremona, i giovani patrizi veneziani a Venezia. Guarino soffrì molto per i danni toccati alla sua amata Verona; e fosse per questo o per non so quali altri motivi, l'anno 1412 gli passò molto triste. «Tutti i favori della sorte mi si mutano in contrarietà; i pensieri, le deliberazioni sortiscono l'effetto opposto. Le mie più belle e più fondate speranze mi sguisciano di mano come serpenti. Fa una bellissima giornata? Mi metto in viaggio e giù acqua e grandine a rovesci: tutto mi succede al contrario dei miei desideri. Sicchè eccomi qui errante e ramingo mutar luogo ma non fortuna». E finisce invidiando all'amico Scola, a cui scriveva così sconfortato, la costanza nelle avversità e l'anima veramente stoica.

      40. Par di vedere in Guarino come scossa e pericolante la sua posizione di professore a Firenze; altrimenti non si saprebbero spiegare quelle sue querimonie. Che egli avesse in quella città incontrate molte e potenti amicizie, si è veduto; bastino i nomi di Antonio Corbinelli, Roberto Rossi, Palla Strozzi, tutte persone autorevoli e a lui sinceramente affezionate. Ma è anche certo che vi deve aver trovato non poche ostilità. Se ne sente l'eco, un po' lontana ma abbastanza viva ancora, in una lettera posteriore di alcuni anni. «Io chiamo in testimonio Dio e i suoi santi, che nel tempo che io fui a Firenze non sorse, direi, giorno, che io non fossi tormentato da brighe, da insulti, da litigi. Vi è in codesta setta malvagia tanta smania, anzi avarizia di gloria, non di quella vera, ma di quella effimera e apparente, che pur di conseguirla non hanno alcun riguardo alla riputazione altrui. Onde non lodano nessuno se non con frasi mozze e soggiungendo sempre: — Si aspetta che faccia meglio per l'avvenire. — Se ti sentono lodare uno, se ne hanno a male, brontolano, fanno i visacci e, come se la lode data agli altri andasse a scapito della propria, invidiano i lodati e mordono i lodatori. Di qui animosità tra loro, odio contro gli altri. Queste non sono amicizie ma cospirazioni». Conchiude: at vero paucorum improbitas plus ad nocendum quam plurimorum amor, modestia ad iuvandum pollet, praesertim cum fragile patrocinium haberi soleat ubi apud huiusmodi ingenia per innocentiam victitare studeas.

      41. A chi alluda qui Guarino, non si sa, toltone Lorenzo Benvenuti. Si capisce bene che la vita di un uomo si intreccia con quella di altri che sono illustri, di altri che sono oscuri; e di persone oscure si tratta qui senza dubbio. Ma non era oscuro al contrario un altro fiorentino, che osteggiò accanitamente il nostro Guarino: quello stesso che lo chiamò allo Studio di Firenze e che fu poi forse causa di farnelo partire, intendo il Niccoli.

      42. Sul Niccoli i contemporanei e specialmente i suoi nemici, come il Bruni e il Filelfo, non lasciarono sfuggirsi occasione di dire tutto il male possibile e caddero in esagerazioni. Ma dall'ammettere le esagerazioni al negare ogni fede alle loro, sia pur passionate, asserzioni, ci corre un bel tratto. Fu sparsa dal Filelfo la notizia che il Crisolora, Guarino, l'Aurispa, chiamati a Firenze dal Niccoli, furono poi da lui stesso o per invidia o per ingenita malvagità mandati via. Per l'Aurispa l'accusa è falsa, ma per il Crisolora, della cui partenza da Firenze si adducono altri motivi, non è falsa interamente, giacchè il Bruni in una lettera al Niccoli parla chiaro di animosità di costui contro il Crisolora. Quanto a Guarino poi l'accusa è vera almeno per metà; non sarà stato il Niccoli la sola causa per cui Guarino abbandonò Firenze, ma una delle principali senza dubbio.

      43. Il Niccoli aveva delle buone qualità; e un amatore degli studi classici gli perdona molto, perchè molto ha fatto in vantaggio di essi, specialmente col raccogliere e copiare manoscritti. Guarino nella sua invettiva contro il Niccoli è un po' troppo crudele, quando mettendolo in canzonatura lo riduce alle proporzioni di un asino carico di libri. Già il raccogliere codici e materiali era merito non piccolo per quei tempi di preparazione. Ma lasciando ciò, era forse il Niccoli null'altro che un semplice e dozzinale copista? Egli studiava e discuteva la forma delle lettere, facendo così opera utile, perchè su questa via egli fu condotto senza accorgersi a trattare questioni ortografiche. L'ortografia non è disciplina oziosa e lo mostrarono tutti quegli umanisti, che se ne occuparono di proposito, dal severo Barzizza al geniale Poliziano, non escluso Guarino stesso, che compose più tardi un trattato sui dittonghi latini e uno sugli spiriti greci: del resto nell'emendamento dei testi chissà quante volte egli non avrà discusso seriamente questioni di ortografia. Il Niccoli aggiunse due elementi nuovi a queste ricerche: il confronto delle forme latine con le corrispondenti greche e il sussidio delle lapidi, le quali non soffrono le alterazioni, a cui vanno soggetti i manoscritti.

      44. Dove Guarino ha ragione è nella pittura che fa del carattere morale del Niccoli. Il Niccoli era in verità uomo moralmente meschino, che dava molto appiglio alla satira e alla caricatura. Quel vantarsi di saper tutto e dar la baia agli altri, mentre poi egli si lasciava cogliere grossolanamente in fallo, era uno dei suoi capitali difetti. Suo difetto era pure una tal quale burbanza da superiore coi pari; talchè si è tentati a prestare intera fede a Guarino, dove racconta che il Niccoli gli domandò dei codici, spacciando nei crocchi che egli fosse suo schiavo. Altro suo difetto era l'invidia e deve esser vero il fatto narrato da Guarino, che venuto il Niccoli in gelosia di un condiscepolo, a cui era inferiore per ingegno, volesse obbligare lui, Guarino, a cacciarlo dalla scuola. Ma Guarino era uomo di carattere e non si sarebbe a niun costo piegato a servire così bassamente i fanciulleschi dispettucci del suo protettore. Guarino oppose energica resistenza; e il Niccoli lo cominciò a perseguitare prima nei circoli privatamente, poi pubblicamente con una lettera.

       45. Guarino non recedette: ut conviciari et maledicere petulans superbumque arbitror, ita respondere et remaledicere civile fasque iudico; e rispose. Non possiamo dire se fosse più mordace la risposta o la provocazione; ma la mordacità guariniana non fa certamente torto alla tempra dell'uomo. Dopo tutto Guarino fu il provocato e quanto a nobiltà d'animo ne avea da vendere al Niccoli e a molti altri. Pongasi poi mente al concetto che Guarino si era formato dell'uomo di lettere e si vedrà che distanza da lui al Niccoli. Egli ebbe ragione di spargere il ridicolo sul Niccoli, che si rese schiavo degli sciocchi capricci e delle prepotenze di una druda; ebbe ragione di affermare, che il volgo non poteva non scandolezzarsi di un uomo, il quale delle lettere si facea scudo a peccare: perchè nel concetto di Guarino il letterato deve essere virtuoso, deve avere un alto valore morale, deve essere insomma un uomo superiore.

       Indice

      46. Il cozzo di Guarino col Niccoli era stato troppo violento e quell'ostilità aveva acquistato maggior gravità diventando pubblica. Il Niccoli nelle faccende dello Studio fiorentino avea gran peso e la posizione di Guarino a Firenze dovette rendersi insostenibile.

      47. Egli era colà ancora nei primi mesi del 1414; ma poco più vi rimase. Giusto in quell'anno, verso la metà, capitò a Firenze Francesco Barbaro, non si saprebbe dire per quali ragioni. Forse era corsa qualche trattativa tra la famiglia Barbaro e Guarino da quando questi cominciò a trovarsi a disagio in Firenze; forse il Barbaro desiderò di conoscere da vicino quel centro di umanisti, così ormai famosi per tutta Italia e con alcuno dei quali era probabilmente in corrispondenza.

      48. Comunque, a Firenze il Barbaro si sentì come in casa propria. Sedicenne appena, com'era allora, aveva pur levato un certo rumore intorno a sè per la precocità del suo ingegno e per il rapido progresso negli studi; al che si aggiungeva la nobiltà e liberalità della sua famiglia. Non era egli stato alunno di Giovanni da Ravenna, cancelliere dei Carrara a Padova, non meno celebre dell'omonimo che insegnava a Firenze? Non aveva egli udite le lezioni di Gasparino Barzizza, prima a Venezia in casa propria, dove il Barzizza era stato ospitato, e poi a Padova dove l'illustre umanista aveva piantata la sua feconda scuola? Non aveva egli conosciuto a Venezia quel Manuele Crisolora, che aveva insegnato a Firenze?

      49. Ben a ragione pertanto il Barbaro respirò aria sua a Firenze e si mosse liberamente in quel circolo di umanisti, che nè potevano poi dimenticarlo, nè potevano essere dimenticati da lui. Ivi si strinse in amicizia con Giovanni di Bicci dei Medici e coi due suoi figliuoli Cosimo e Lorenzo, allora studiosi e più tardi fautori degli studi. Conobbe Palla Strozzi, Roberto Rossi, i Corbinelli, Leonardo Bruni e il frate Ambrogio Traversari, che di tutta quella schiera eletta gli restò il più intimo. Con lui ebbe infatti negli anni successivi


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