Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis
– e masticava lentamente, battendo le labbra e le gengive senza denti.
— Datemi la chiave della porta. So che voi l’avete.
La vecchia tornò ad alzarsi, si trascinò fino alla parete, staccò una chiave da un chiodo.
— Vi accompagno. La responsabilità ce l’ho io…
De Vincenzi le tolse la chiave dalla mano.
— Non importa. Continuate a mangiare.
Uscendo sotto l’androne, per imboccare le scale, chiamò Cruni.
— Rimani davanti alla portineria… Non farla salire… – e indicò la vecchia, che s’era messa sulla porta.
Fece le scale quasi di corsa. Quando fu sul ballatoio del terzo piano, vide subito una figura nera contro una delle tre porte.
Era una donna. Vestita tutta di nero, con un cappello coperto di lustrini sul capo grigio. Il volto piccino, risecchito. Una castagna secca con due occhietti traforanti.
Guardò le altre due porte. Sopra entrambe si vedevano le targhette con due nomi, che non erano quello di Giobbe Tuama. La donna si teneva proprio contro la porta, che lui doveva aprire.
Egli avanzò con la chiave in mano. Quella si eresse sul busto. Lo fronteggiò. Non parlava. Gli occhi le fiammeggiavano.
— Permettete?
— Chi siete, voi?
Una voce di petto, profonda e l’accento era spiccatamente straniero.
— Commissario De Vincenzi della Questura Centrale.
La donna corrugò la fronte. Tutte le rughe le si addensarono agli angoli degli occhi. S’era irrigidita. Alta e sottile com’era, sempre più sembrava legnosa, tutta punte.
— Che cosa volete? Perché?
Era evidente che non capiva e si sforzava di trovare una spiegazione a quell’uomo, che diceva di appartenere alla polizia e che tendeva una chiave davanti a sé.
— Ditemi voi, piuttosto, che cosa fate qui!
— Aspetto.
— Chi?
— Qualcuno che deve venire…
Aveva tra le mani una grossa borsa nera e la stringeva.
— Giobbe Tuama?
La vecchia non toglieva lo sguardo dalla chiave.
— Perché volete entrare in casa di Giobbe Tuama? Chi siete?
De Vincenzi con una mano, dolcemente, fece per allontanarla.
— Lasciate che io apra. Dentro potremo parlare. Gli occhi della donna ebbero un lampo.
— Dentro… – mormorò e si trasse da parte. – Entrerò con voi…
La chiave girò e la porta si aprì.
Apparve subito la cucina, con un fornello a gas proprio di fronte alla porta. In mezzo, il tavolo con avanzi di cibo abbandonati sopra un tovagliolo pieno di macchie. Qualche seggiola di paglia. Una credenza nell’angolo, vicino alla porta a vetri, che era aperta. Si vedeva un breve corridoio buio e poi un’altra porta.
De Vincenzi andò alla finestra e l’aprì. L’odore di polvere, d’umidità, di rancido era insopportabile.
La vecchia lo aveva seguito e si guardava attorno. I suoi sguardi si fissarono su qualche registro e sopra una cassettina di legno, che si trovava sulla credenza.
— Volete dirmi adesso chi siete, signora?
Volse gli occhi verso di lui.
— Voi siete proprio della polizia?…
De Vincenzi annuì.
— Lo avete arrestato?
Era bizzarro. Quel colloquio tra loro due, nella cucina lurida di un appartamento in cui egli penetrava per la prima volta, gli dava la sensazione di una fatalità insfuggibile. Aveva l’impressione di essersi recato lì, non per perquisire la casa di Giobbe Tuama, ma per incontrarsi con quella donna.
— Che cosa direste, se vi rispondessi che Giobbe Tuama è stato arrestato?
— La giustizia degli uomini non può punire a sufficienza le colpe commesse contro Iddio.
— Conoscete molto bene Giobbe Tuama?
— L’ho conosciuto.
— Lo aspettavate?
— Sì. Debbo incontrarmi con lui.
— Non potrete farlo, signora… Non potrete incontrarlo mai più…
— Volete dire ch’egli è morto?
— Appunto. Lo hanno ucciso.
— Ah!
Ma non fu neppure un’esclamazione di sorpresa. Appena un suono inarticolato, che poteva essere di assenso, di conclusione. Come un punto fermo dopo la frase del commissario.
— Vedo che la notizia non vi turba…
— Perché dovrebbe turbarmi? Non posso che gioire, quando vedo Iddio colpire il male in tutte le sue forme.
— Anche in quella di un essere umano?
— Sì. Anche in quella di un essere umano.
— Giobbe Tuama aveva, dunque, in sé molti peccati mortali?
— Era una bestia immonda.
De Vincenzi ebbe un brivido. Il senso dell’irreale e del tragico lo invase. Quella donna s’era sbagliata di secolo. Veniva dalle profondità del medioevo.
— Egli è morto, signora.
— Il Signore ha detto: facciasi morire ciascuno per il suo proprio peccato.
Anche questa una puritana! Ma più terribile, più spietata. Atroce.
— Chi siete voi, signora?
— Volete sapere il mio nome? Io mi chiamo Dorotea Winckers…
Lui ebbe un’intuizione.
— E come vi chiamavate un tempo?
La vecchia strinse le labbra esangui.
— Che importa!
— Moltissimo, invece.
L’altra tacque sempre più irrigidita, chiusa come un’ostrica.
— Signora! Iddio può punire a suo agio; ma qui c’è un delitto… e non uno solo… Io debbo trovare l’assassino e lo troverò. V’invito a rispondere alle mie domande. Perché vi ho trovata davanti alla porta di Giobbe Tuama, che questa notte qualcuno ha strangolato?
— Lo aspettavo.
— Per quale ragione? Che rapporti avete con lui? Un sorriso bieco, carico di sarcasmo, le apparve sulle labbra.
— Oh! non avrebbe avuto piacere di vedermi. Sono tre giorni che lo seguo e lui se ne era accorto. Ha tentato fuggirmi. Io non volevo altro che questo: che lui mi vedesse. Se non fosse morto, avrei continuato ad apparirgli dovunque. Sarebbe bastato.
— E lo attendevate davanti alla porta della sua casa?!
— Sì. Avrebbe capito che non poteva sfuggirmi più.
— Lo odiavate, dunque?
— Come si odia il male. L’empio dev’esser tormentato tutti i giorni della sua vita.
Una pazza lucida. De Vincenzi si sentiva sempre più invadere da un malessere strano. Anche a lui la ragione cominciava a vacillare. Tutto era già allucinante. Il corpo del vecchio sotto il banco. Lo spillone cacciato nel cuore