Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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che conduceva… non fu facile… Dovetti mettermi in campagna personalmente… e debbo riconoscere che fui anche assistito dalla fortuna… Come trovare Jeremiah Sha… Shanahan sotto il nome di Giobbe Tuama? Io lo trovai.

      — È appunto questo che m’interessa sapere. Come fece a trovare Jeremiah Shanahan?

      Il volto, del direttore-proprietario della «Radio» s’illuminò. Per un istante egli perdette la sua diffidenza.

      — Ah! un bel lavoro! – esclamò, gonfiandosi; e atteggiò la bocca a un sorriso malizioso. – L’anagrafe, naturalmente, non ci aiutò. Eppure è sui cartellini dell’anagrafe che il nostro lavoro si compie di solito. Questa volta dovemmo farne a meno. Gliel’ho detto, commissario! I seicento dollari sono stati guadagnati da me, con l’aiuto del mio solo cervello!

      Si batté una mano sulla fronte. Sembrava un guitto che magnificasse i suoi successi.

      — Non è nel lobo frontale che si sviluppa il pensiero umano? L’ho sentito dire. Ebbene, cavaliere, io debbo aver molto sviluppato il lobo frontale. Come ho fatto a scovar Jeremiah Shanahan sotto il nome di Giobbe Tuama? Lo dirò a lei. Nella maniera più semplice; ma occorreva pensarci! Avevo l’indicazione che l’uomo da cercare era irlandese. C’era da scommettere, quindi, che fosse protestante. E, se tale era, si poteva supporre che frequentasse le funzioni del suo culto. I protestanti, anche questo l’ho sentito dire, sono credenti scrupolosi e non mancano di praticare, quando possono. Dovevo, quindi, cercare Jeremiah Shanahan in seno alla confraternita protestante di Milano. Nulla! Nessuno conosceva un irlandese di tal nome. Qui ci sono le lettere, che ho scambiate con il mio corrispondente di Detroit… Vede? Non si trova un Sha… Shanahan, gli scrivevo io. Può darsi che abbia mutato nome. Mandatemi una fotografia… Me ne mandò una, finalmente… Eccola…

      E tese a De Vincenzi un cartoncino ingiallito. Una foto da dilettante, vecchia di molti anni. Si vedeva un grande spiazzo brullo, davanti a una fattoria. In primo piano due figure di uomini. Avevano gli stivaloni, il cappello a larghe tese e un’enorme cartuccera alla cintola. Sotto una di quelle figure era stata tracciata con la penna una croce.

      — La croce indica colui che io dovevo ricercare…

      De Vincenzi riconosceva il grande naso e la mascella quadrata di Giobbe Tuama. Un Giobbe Tuama di almeno trent’anni prima, ma con tutti i segni caratteristici dell’uomo, ch’egli aveva veduto cadavere. E riconobbe pure il compagno: era il morto dell’Hôtel d’Inghilterra.

      — Che ne dice? Fu con quella fotografia, che mi misi a cercarlo. Frequentai le riunioni religiose della domenica in Piazza Mentana… E lo trovai. Con quei connotati non c’era da sbagliare! Fu facile, allora, conoscere il nome che aveva assunto e sapere dove abitasse.

      Il direttore proprietario della «Radio» tacque, fissando il commissario. Aspettava gli elogi. Li meritava, del resto. Un «servizio» effettuato con intelligenza.

      — Bene. E una volta comunicato il nome e l’indirizzo al suo corrispondente, ebbe occasione di occuparsi ancora dell’irlandese?

      — Ma no! Avrei voluto e potuto farlo, naturalmente, e chiesi all’americano se desiderava che continuassi le indagini… La tariffa, che gli mandai era… molto modesta… come sempre… Non ebbi risposta. Misi, allora, la pratica a dormire e l’altro ieri sera fui davvero meravigliato, quando vidi comparirmi dinanzi il signor Crestansen… Non mi ricordavo neppure il nome e lui dovette mostrarmi la mia lettera… come ha fatto lei poco fa… perché io potessi riprendere la pratica.

      — Che cosa le disse?

      — Ah!…

      Di nuovo la diffidenza e la paura! Gli sguardi del detective sfuggivano.

      — Ma… nulla… Nulla d’interessante…

      — Mi ascolti, signor… Signor?…

      — Franceschi… Vittorio Emanuele Franceschi…

      — Ebbene, signor Franceschi, è necessario lei sappia che tutti e due questi uomini tra iersera e stamattina sono stati uccisi…

      — Che mi dice?! – esclamò l’omaccione, dando un balzo sulla seggiola. – Proprio questa mattina il… il mio cliente doveva tornare qui… Lo aspettavo… Sono venuto in ufficio apposta di domenica…

      — Pena inutile, oramai. Ma invece è assolutamente indispensabile che lei mi dica tutto quello che sa…

      — Oh!…

      L’uomo era colpito. Con le sue grosse mani toccava i fogli della pratica, nella cartella rossa. La notizia datagli doveva avergli distrutto qualche calcolo di guadagno cospicuo. Gli avevano ucciso la gallina dalle uova d’oro.

      — Aspetto che lei parli – disse De Vincenzi, bruscamente.

      — Ma non è molto quel che posso dirle!… Si sarebbe trattato di fare… di compiere altre ricerche… Voleva che rintracciassi ancora una persona e che la pedinassi… Oh! Non lo avrei fatto! Rintracciarla, sì. Pedinarla, no. È proibito… Lei sa che i pedinamenti ci sono proibiti… La Questura ci dà la licenza d’informatori privati… ci autorizza a tutte le ricerche… ma pedinamenti, niente!… Oh! come possiamo raccogliere le informazioni, se non seguiamo la persona che c’interessa, domando io? È un assurdo!

      Ecco: ridiventava loquace. La paura gli scioglieva la lingua. Si nascondeva dietro le parole.

      — Non divaghi. Mi ripeta quel che le disse Crestansen. Esattamente e senza reticenze.

      — Glielo sto dicendo, buon Dio! Entrò qui dentro, mi disse: Hellò boy, molto bene avermi trovato Shanahan, ma adesso son qui io e ho bisogno che mi facciate un altro small work…

      Senza volerlo, De Vincenzi sorrise e dovette trattenersi per non ridere. Un guitto, quel Vittorio Emanuele Franceschi! Adesso, s’era messo ad imitare l’atteggiamento duro e brusco di Crestansen e pronunciava le parole inglesi, stringendo i denti e mordendosi la lingua.

      — Immagino che parlasse inglese un po’ meglio di lei!

      — Era un inglese americano, sa?

      — E poi le avrà detto di che small work si trattava… Continui!

      — Un piccolo lavoro di ricerche, appunto. E poi…

      — Il nome.

      — Come dice?

      — Il nome della persona che voleva ritrovare.

      — Ah!…

      Ma questa volta non esitò. Fece passare i fogli, si fermò a uno di essi, che conteneva alcuni appunti scritti a matita.

      — Mi dia quel foglio.

      — Ma, cavaliere… Io non so… II segreto d’ufficio… A meno che ella abbia un regolare mandato…

      De Vincenzi alzò le spalle.

      — Chi ha ucciso Tuama e Crestansen non aveva un mandato regolare!… Mi dia quel foglio…

      Franceschi glielo diede, facendo il volto di chi si toglie un dente. Il commissario lesse gli appunti con attenzione. Eran stati presi in fretta, con parole abbreviate e segni convenzionali: la facile stenografia di cui si serviva il detective per proprio uso.

      Anzi tutto un nome: Olivier O’Brien… Era il clan degli irlandesi questo? E tutti venivano dall’America. E c’era da giurare ch’eran stati tutti nel Sud Africa. Anche Crestansen, perché no?… E De Vincenzi pensò a Beniamino O’Garrich, che s’era fatto livido quando gli aveva ingiunto di tornare alla Fiera. Di chi aveva paura il colosso? Era evidente: dell’uomo che aveva ucciso Giobbe e Crestansen. E lui ignorava ancora l’assassinio dell’Hôtel d’Inghilterra! Ma lo ignorava?

      De Vincenzi continuò a decifrare gli appunti. Questo Olivier O’Brien doveva essere un uomo alto, magro, coi baffi neri e leggermente zoppicante della gamba destra.

      — Sono tutti qui i connotati


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