Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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rintracciata la banca e questo era facile – avrebbero permesso di mettere le mani su quanto Tuama possedeva di prezioso e c’era da sperare che tra i valori e le carte di lui si potesse trovare anche qualcosa che servisse ad illuminare la sua vita passata, tanto piena di segreti e di misteri avvelenati.

      De Vincenzi si mise le due chiavi in tasca e richiuse la cassetta.

      Aprì la porta del corridoio ed entrò nella camera da letto.

      Giobbe Tuama, avesse o meno una sostanza, come Crestansen credeva, era ad ogni modo in grado di disporre di alcune e forse di molte migliaia di lire. I pacchetti delle cambiali costituivano di per sé soli un capitale ragguardevole. Eppure viveva nella miseria.

      La sua camera da letto, più ancora che la cucina, lo dimostrava. I muri bianchi. Una branda di ferro per letto. Pochi mobili di legno dipinto. Non era sordido, era squallido. Uno squallore da cella francescana. Si sarebbe detto che l’abitatore di quella camera vivesse di proposito nell’austerità. Abolito il superfluo, anche il necessario era ridotto al minimo. Si pensava alla macerazione della carne. Se De Vincenzi avesse trovato un cilicio, non se ne sarebbe meravigliato.

      Trovò, invece, gli abiti del vecchio accuratamente disposti nell’armadio, la biancheria nel cassettone. Non una carta, una lettera, una fotografia, un libro. Neppure la Bibbia: Giobbe Tuama vendeva il Libro dei Libri, ma non lo leggeva nell’intimità della sua casa.

      C’era da chiedersi come facesse a funzionare il cervello di quell’uomo. Forse, si nutriva di ricordi. Forse, egli rimaneva il più possibile in giro per la città. Lo squallore della sua abitazione faceva pensare ad una capanna sorta in un luogo deserto e selvaggio, dove fosse impossibile procurarsi alcun conforto. C’era in lui il proposito di rivivere l’esistenza del Sud Africa?

      De Vincenzi rimase lunghi istanti in piedi in mezzo alla stanza, a guardarsi attorno. Le persiane e i vetri erano chiusi e il sole meridiano, che batteva contro la facciata della casa, riusciva appena a far entrare, un diffuso chiarore rossastro. Lui di proposito non aveva aperto la finestra, per potersi render conto dell’ambiente. Cercava di vedere lì dentro Giobbe Tuama, con il suo tait nero, i pantaloni troppo lunghi e troppo stretti, che gli ricadevano sulle scarpe interminabili, scarpe da clown. Ma non riusciva ad immaginarselo. L’ambiente non mandava vibrazioni, non lo accoglieva; chiuso e freddo, difendeva il segreto di un’esistenza, che s’era tragicamente spenta sotto un banco di libri, sui lastroni di una piazza.

      Il commissario si scosse, perché sentì rumore di passi nella cucina.

      Era Cruni, che veniva a chiedere se avesse bisogno di nulla. In realtà il brigadiere, irretito da quell’attesa prolungata, era meravigliato che il suo superiore se lo fosse trascinato seco, per poi lasciarlo in istrada, mentre lui effettuava una perquisizione, che di solito non compiva mai da solo.

      — Hai veduto uscire una vecchia signora vestita di nero?

      — Ma sì, cavaliere… Più buffa di quella!… C’entra anche lei?

      De Vincenzi guardava ancora la cucina. Decisamente, la casa gli aveva rivelato tutto quanto aveva in sé. Poco o nulla, vale a dire. Vero è che, col recarvisi, aveva conosciuto la moglie del fu Giobbe Tuama… E aveva trovato la chiave… e le cambiali…

      Aprì di nuovo la cassetta e trasse i pacchi. Li mise sul tavolo, assieme alla cartella rossa. Si guardò attorno. Non c’era da sperare di trovar lì un giornale, un foglio qualunque di carta.

      — Prendi tutta questa roba… Ma come farai a portarla senza avvolgerla?

      Cruni aveva veduto una sporta di paglia, che doveva servire al vecchio per le provviste…

      La prese e vi cacciò dentro la cartella rossa e tutta quella raccolta di lacrime, che avevan fatto stillar dalla penna i debitori dello strozzino.

      — Andiamo.

      De Vincenzi chiuse a chiave la porta e discese.

      — Ricordati di telefonare al giudice, dandogli l’indirizzo di questa casa, perché venga a mettervi i suggelli.

      Lui sentiva un violento bisogno di respirare aria pura. Eppure, non aveva ancora finito con quella casa. Doveva interrogare la portinaia. Forse, c’era qualcosa da tirar fuori da lei, ch’era stata senza dubbio la persona di fiducia e probabilmente la confidente del vecchio.

      Cruni gli lanciava sguardi pietosi. Il brigadiere non conosceva quasi nulla di quell’inchiesta. Non l’aveva seguita col suo commissario, era entrato in iscena all’improvviso e tutta la sua opera fino allora si era limitata a rimanersene fermo in un portone, a far la guardia a due vecchi, che avevano continuato a brontolare fra loro. Non poteva, quindi, essersi appassionato al giuoco complesso delle indagini. E aveva fame!

      — Cruni, adesso vattene a San Fedele. Manda a casa il Pastore e i due vigili notturni, pregandoli di tornare verso le tre…

      — E lei, dottore?

      — Io ho ancora qualcosa da fare qui… – ebbe un’esitazione. – Al Pastore dì, invece, che andrò io da lui, nel pomeriggio di oggi… Hai capito?

      Il brigadiere assentì e scomparve fuori del portone, col passo rapido delle sue gambe troppo corte.

      De Vincenzi trovò i due vecchi sempre seduti davanti alla tavola apparecchiata.

      — Eccovi la chiave. La consegnerete al giudice, quando verrà.

      La vecchia la prese e andò a riappenderla al chiodo. Tremava tutta. Il colpo era stato forte per lei. Si voltò a guardare il commissario con occhi smarriti.

      — Come… come è morto?

      — Quando lo avete veduto per l’ultima volta?

      — Ieri mattina…

      Tormentava il grembiule con le mani.

      De Vincenzi avanzò nella stanza angusta.

      — Sedetevi… Dobbiamo parlare tranquillamente…

      Sedette. Il commissario le si teneva dinanzi. Il vecchio rimaneva immobile con le braccia distese sul tavolo e quel suo sguardo spento, annegato negli occhi acquosi.

      — Dunque, dicevate che ieri mattina vedeste Giobbe Tuama, quando rincasò dopo aver trascorso la notte fuori di casa…

      La vecchia trasalì.

      — Come lo sapete?

      — So questo e molte altre cose sul conto di Giobbe Tuama. Sarà bene, quindi, che mi diciate la verità.

      — Se sapete tante cose, che bisogno avete di interrogarmi? Che cosa posso dirvi, io?…

      — Da quanto tempo abitava in questa casa?

      Un gesto largo indefinito della mano ossuta fu la risposta.

      — Molto tempo?

      — Appena dopo la guerra…

      — Ne siete sicura?

      — Come volete che mi ricordi con precisione?

      — Ha vissuto sempre solo?

      — Che volete dire? Solo… in che modo?

      Che fatica strapparle le risposte!

      — Voglio dire proprio quel che dico. Qualche altra persona ha abitato con lui, in questa casa?

      — Per un certo tempo veniva un giovinetto a far la pulizia… Aveva la chiave… Si tratteneva quanto voleva…

      — Ma vi dormiva anche?

      — No! Oh! dove volete che si mettesse? Non avete veduto le due camere?

      — Bene. Molta gente veniva a trovare il vecchio?

      — Qualcuno…

      — Ascoltatemi e cercate di capirmi! Io so perfettamente quale specie di traffico facesse il morto… Prestava danari ad usura…


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