Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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Quando?

      Ancora un sorriso apparve sulle labbra tumide e coralline dell’uomo.

      — Se io le dico che non è neppure mezz’ora, lei è tentato di non credermi.

      — Non mi permetto pensare ch’ella menta.

      — Infatti! Non è più di mezz’ora che io ho conosciuto la signora Shanahan. È stata lei a presentarmisi.

      — Allora, quando io sono giunto, era appena andata via?

      — Non è andata via.

      Indicò la porta nera di fronte a loro.

      — È in Chiesa che prega.

      — Per l’anima di suo marito?

      Il Pastore si alzò.

      — Forse per noi non è facile comprendere un dramma come questo, commissario! Quella donna sembra avere terribili ragioni di odio contro suo marito.

      — Lo so.

      Seguì un silenzio. Anche De Vincenzi si era alzato.

      — Tornerò da lei, reverendo. Pensi alla necessità di dirmi tutto quello che sa.

      — Tutto quello che so o tutto quel che suppongo?

      — Non posso sperare ch’ella intenda mettermi a parte delle sue supposizioni.

      — Crede che io voglia intralciare la giustizia degli uomini?

      — Per lo meno non aiutarla. Lei ha fede nella giustizia del Signore.

      — Iddio ha detto: «Io domanderò conto della vita dell’uomo a qualunque suo fratello».

      — Ma la giustizia sociale…

      Il Pastore alzò una mano.

      — Il sangue di colui che spanderà il sangue dell’uomo sarà sparso dall’uomo; perciocché Iddio ha fatto l’uomo alla sua immagine.

      — È una legge di vendetta, che lei sancisce in tal modo.

      — Iddio ha detto: «Facciasi morire ciascuno per il suo proprio peccato».

      De Vincenzi non trattenne un gesto d’impazienza. Anche questo come la vecchia! E con le stesse citazioni! Da tre ore che si trovava a combattere con quei pietisti cominciava a perdere il controllo di sé.

      — Tornerò e lei mi dirà qualcosa di più preciso.

      — Ma lei non mi ha parlato del secondo delitto.

      Il commissario alzò le spalle.

      — Un certo Giorgio Crestansen è stato trovato ucciso in una camera dell’Hôtel d’Inghilterra. Gli hanno conficcato un lungo spillone nel cuore, dopo averlo cloroformizzato. Crestansen era venuto a Milano per trovare Jeremiah Shanahan e c’è ragione di credere che si sia incontrato con lui, ieri alla Fiera del Libro.

      Il Pastore taceva. Aveva impallidito. A più riprese contrasse la bocca convulsamente.

      — Anche lui! – mormorò.

      L’impressione era stata forte. Dovette appoggiarsi allo schienale del divano. Poi sedette e si strinse le ginocchia con le mani. Aveva il volto immoto. Lo sguardo fisso. De Vincenzi comprese che nel cuore e nel cervello di quell’uomo si stava combattendo una battaglia. Forse, avrebbe parlato. Occorreva dimostrare di non volerlo spingere. Ma perché quella volontà di silenzio? Non era possibile pensare che fosse soltanto la solidarietà dello stesso credo che lo inducesse a negare la propria collaborazione all’opera della polizia. Quel servo del Signore era evidentemente un uomo onesto e in buona fede e non doveva ammettere omertà e patteggiamenti.

      De Vincenzi fece qualche passo per la stanza.

      — Conosceva Giorgio Crestansen? – chiese di colpo, voltandosi.

      Il Pastore si alzò. Era tornato padrone di se stesso.

      — Un dramma terribile! – scandì con voce interrotta. – Non voglio mentire con lei, per quanto sia convinto che quel che posso dirle io non le gioverà molto. Sì, conoscevo Giorgio Crestansen. Era stato da me, qui in questa stanza, ieri e mi aveva parlato. Era venuto a cercare Giobbe Tuama. Gli dissero che il vecchio non c’era e allora volle parlare col Pastore. Lo ricevetti.

      Andò a sedere nella poltrona, davanti alla scrivania e il Cristo giganteggiò sulla sua testa.

      — Era febbrile. Indovinai subito in lui l’uomo abituato alla lotta e che non tollera ostacoli davanti a sé. Gli dissi che avrebbe potuto certamente trovare Giobbe Tuama in Piazza Mercanti, alla Fiera del Libro. «Lo so», mi rispose. «È da ieri che faccio cercare Tuama e questa indicazione era già stata data al mio incaricato. Ma ho voluto controllarla. Mi preme troppo non lasciarmelo sfuggire». Poiché nelle sue parole c’era come una minaccia, gli chiesi se conoscesse bene Giorgio Tuama, se fosse suo amico. Mi guardò in modo strano, con un cattivo sogghigno. «Sono trent’anni che lo cerco» disse. Poi aggiunse con un sorriso beffardo: «Sarà molto contento di rivedermi! Che cosa fa adesso?».

      Il Pastore s’interruppe. Alzò lo sguardo in volto al commissario, poi lo abbassò sulle carte. Ne mosse qualcuna con movimenti meccanici.

      — Lei può aver creduto, commissario, che io abbia voluto mentirle poco fa, quando le ho detto che ogni fratello cristiano non deve rendere conto che alla propria coscienza. La verità è che io mi occupo assai poco di quello che fanno gli altri, anche coloro che mi sono vicini. Come Pastore d’anime avrei, forse, il dovere di saper qualcosa di più sul conto loro. Ma non lo faccio. Questa è la verità. Le cure della propaganda religiosa e del mio ministero, i miei studi mi assorbono… Così, io non sapevo e non so davvero nulla della vita di Giobbe Tuama. L’uomo da molti anni frequentava con assiduità le nostre riunioni. Da un anno, come appartenente al Consiglio della Chiesa, aveva naturalmente intensificato la sua presenza. Gli era stato affidato il lavoro di diffusione dei libri sacri e lui se ne occupava con amore assieme a Beniamino O’Garrich. Sapevo che godeva d’una certa agiatezza, ma questo era tutto. Perciò alla domanda di quel Crestansen risposi semplicemente, come a lei: «Tuama è un ottimo cristiano, che si occupa di diffondere la parola del Signore». L’uomo alle mie parole accentuò il sogghigno sardonico. «Bene – disse. – Lo troverò alla Fiera». E se ne andò. Questo è tutto quello che posso dirle…

      De Vincenzi lo guardò. In fondo, lo compiangeva. Era evidente che egli non diceva tutto. L’abbattimento, che lo aveva invaso alla notizia dell’assassinio di Crestansen ne era la prova. Non avrebbe esclamato: «anche lui!», se non avesse conosciuto qualche maggiore particolare sui legami che univano i due uomini. Ma era altrettanto evidente che aveva qualche ragione molto forte per non parlare, almeno subito, e che il silenzio a cui si sentiva costretto lo faceva soffrire. Insistere sarebbe stato inutile.

      — Bene! – disse. – Contavo ottenere da lei un po’ di luce… Invece esco di qui, brancolando ancora fra le tenebre. Speriamo che riesca ugualmente a trovare il mio cammino.

      Il Pastore si alzò.

      — Non vuole vederla? – chiese, indicando la porta nera della Chiesa.

      — Non ora, a ogni modo.

      Ma si fermò.

      — Che cosa le ha detto la signora Shanahan?

      — Poco o nulla di concreto. Voglio dire che non ha citato alcun fatto, oltre quello che io ignoravo del suo legame coll’ucciso.

      — Legame, che le consentirà di ereditare da lui.

      — Crede che l’eredità sia cospicua? – e nella sua voce era una punta d’ironia.

      — Piuttosto…

      — Vuol scherzare?

      — Non sarebbe il caso. Ignoro che cosa abbia lasciato Giobbe Tuama nella cassetta di sicurezza, che aveva alla banca; ma posso dirle che il vecchio dava denaro a usura e poteva disporre di grosse somme.


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