Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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      Distese le lunghe gambe ed appoggiò la nuca alla spalliera della seggiola. Socchiuse gli occhi.

      De Vincenzi lo guardava. Perché mai era venuto a quell’ora? E perché era venuto?

      Compagni di collegio erano stati e amici. C’era molta cordialità tra loro: ma forse non la confidenza. Dove trovarla la confidenza, del resto, in questi tempi, tra uomini lanciati ognuno verso il proprio destino, con le proprie passioni, i propri bisogni, i molti vizi del corpo umano?

      Ognuno di noi ha un segreto e beato colui che ne ha uno confessabile.

      Qual era il segreto di Aurigi, che, alle due circa di notte, aveva sentito il bisogno di venire a trovare lui e che gli si stava addormentando davanti, lì sulla sedia, come schiantato dalla fatica o dalle veglie o da un torpore malsano?

      Squillò il telefono sul tavolo e l’assonnato diede un balzo.

      «Che c’è?»

      De Vincenzi sorrise:

      «Nulla! Il telefono…»

      Prese il ricevitore e rispose:

      «Pronto…»

      Pronunciò qualche monosillabo e riappese il cornetto. Guardò l’altro:

      «Potevi continuare a dormire…»

      «Scusami! La musica di Verdi…»

      Evidentemente, cercava di darsi un contegno. Indicò con la mano:

      «Sarà il tuo martirio e il tuo incubo, quel telefono lì…»

      De Vincenzi mise la mano sulla scatola nera e lucida, toccandola quasi amorosamente.

      «Il mio caro tirannico telefono! È lui che alla notte, nelle lunghe ore di veglia, mi unisce alla città… Esagero. Diciamo al mondo, al mio mondo di commissario, capo della “squadra mobile”. È per suo mezzo che mi arrivano le voci di allarme, primi richiami disperati…»

      Ebbe un sorriso indulgente, come se compatisse se stesso:

      «Per lo più, sono portinai svegliati dal rumore dei grimaldelli o dallo schianto secco di un colpo di rivoltella o semplicemente dagli schiamazzi di una comitiva di disturbatori notturni. Guardalo!… È tozzo, nero, inespressivo, per te. Niente altro che una scatola con un buffo cornetto e un cordone verde. Ma per me ha mille voci, mille volti, mille espressioni. Quando squilla, io so già, se mi reca un richiamo d’ordinaria amministrazione oppure se mi annuncia un nuovo dramma, una tragedia d’amore e di delinquenza…»

      Aurigi sogghignò:

      «Il mistero da squarciare!»

      “Fa’ pure dell’ironia. Hai ragione. È così raro il caso di un mistero. Lo vorrei! Ma non lo cerco più e non lo aspetto neppure. Nel senso che tu puoi credere: il mistero poliziesco, l’enigma… un colpevole da individuare e da prendere… No, no!… La vita è molto più semplice e molto più complessa nello stesso tempo. Però, vedi, c’è sempre un mistero, che mi appassiona, tragico, fondo… Il mistero dell’anima umana.»

      «Poeta!»

      Aurigi rivide dinanzi a sé il compagno di un tempo. Anche in collegio faceva versi e declamava tutto solo, come un invasato.

      «Io mi domando…»

      «Perché abbia fatto il poliziotto? Sei già il secondo che se lo domanda, questa notte. Ma appunto per questo ho fatto il poliziotto: perché forse sono un poeta come tu dici. Io sento la poesia di questo mio mestiere… La poesia di questa stanza grigia, polverosa… di questo tavolo consumato… di quella povera vecchia stufa, che soffre in tutte le sue giunture, per riscaldar me. E la poesia del telefono! La poesia delle notti di attesa, con la nebbia sulla piazza, fin dentro il cortile di questo antico convento, che oggi è sede della Questura e ha i reprobi al posto dei santi! Delle notti in cui nulla avviene e tutto avviene, perché nella grande città addormentata, anche nel momento in cui parliamo, i drammi sono infiniti, se pure non tutti sanguinosi. Anzi, i più terribili sono appunto quelli che non culminano in un colpo di rivoltella o di coltello…»

      Si fermò, come se un’idea improvvisa lo avesse fatto riflettere.

      «Già… Poeta!… Tu, per esempio, Giannetto…»

      Il sussulto di Aurigi fu repentino, visibile.

      «Io?… Che dici?… Quale dramma vuoi che ci sia in me?…»

      «Ma no!… Chi pensa ad un tuo dramma? Dicevo: tu, Giannetto, sei un poeta come me!… Non è forse per amor di poesia, che ti sei ricordato stanotte del tuo compagno di collegio e sei venuto qui? Perché, infatti, saresti venuto, se non per questo?»

      «Tante altre volte sono venuto e tu non te ne sei meravigliato…»

      «Già… Ma questa sera è diverso.»

      «Indaghi?»

      De Vincenzi ebbe un lampo.

      «Tu hai bisogno di me, questa notte, Giannetto!»

      «Ma certo!… Non sei tu, forse, che puoi darmi l’imprevisto? Alla “Scala” mi aveva preso uno strano torpore. Nel palco mi sono addormentato. Ero sopraffatto da uno sfinimento dolce e morboso. Poi…»

      «Eri solo?»

      «Nel palco? No. È il palco dei Marchionni. C’era Maria Giovanna e sua madre. Poi è venuto Marchionni. Io dormivo… Uno scandalo… Mio suocero… il mio futuro suocero mi ha fatto andare con lui nel ridotto, per farmi la predica. Erano molti giorni che cercava un pretesto, per farmela. Dice che giuoco, che passo le notti al circolo, che mi uccido nei bagordi e che perciò mi addormento, quando mi trovo con la mia fidanzata. Ha parlato di forti perdite, che io avrei fatte. Dice che anche in Borsa ho chiuso il mese con una differenza impressionante…»

      «È vero?»

      «Che gioco? No.»

      «E in Borsa?»

      L’esitazione di Aurigi fu brevissima. Fissò negli occhi De Vincenzi e alzò le spalle.

      «Oh! le Tessili sono precipitate…»

      «Ne avevi molte?»

      «Qualcuna. Ma, se mai, questa era proprio una ragione per star sveglio! No, no. È un’altra cosa. Te l’ho detto: mi sento sfinito. Ho lasciato il teatro prima della fine del terzo atto. Avevo bisogno di camminare. La nebbia… il freddo… la città quasi deserta… Ho fatto la Galleria e sono tornato indietro. Sono venuto qui da te… Ti dò noia?»

      «Mi preoccupi.»

      «Scherzi, vero? Non ti immaginerai che abbia qualcosa d’insolito, di grave, da rivelarti! Sarebbe buffo!…»

      De Vincenzi assunse l’aria del buon fanciullo, che fa tante domande per curiosità. Sorrideva.

      «A che ora finisce il terzo atto dell’Aida

      «Non lo so!… Le undici… le undici e mezzo… Più tardi, forse.»

      «E avevi freddo?»

      «Io?… Perché?»

      «Sei venuto qui all’una e mezzo… Fà il conto.»

      Aurigi scrollò le spalle.

      Di scatto, De Vincenzi si alzò e andò verso il calendario appeso alla parete. Pose il dito sul numero rosso e guardò Giannetto.

      «Domani ne abbiamo 28…»

      Un lampo di terrore passò negli occhi di Aurigi. Visibilmente, la sua forza di finzione lo abbandonò ed egli di colpo apparve smontato. Mormorò, convulsamente:

      «Eh! sarà la fine!»

      De Vincenzi gli si accostò.

      «Dentro sino al collo, dunque? Così?…»

      Un


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