Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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notte sarà finita…»

      Aveva squillato il campanello. L’agente si era alzato dalla poltrona e si dirigeva lentamente verso la porta d’ingresso.

      Il salotto era tutto illuminato. Troppa luce. Una luce da ricevimento, o da operazione chirurgica. Le tre porte erano spalancate. Quella di sinistra, che dava sull’altro salottino più piccolo; quella di destra della sala da pranzo; e quella di fondo, che s’apriva sulla stanza d’entrata.

      L’altro agente scrollò le spalle:

      «Come se non si stesse meglio qui dentro che al Commissariato!»

      Sulla porta del salottino era apparso il commissario Maccari. Grassottello, rotondo, tutto pieno di bonarietà, Maccari aveva le mani in tasca. Ma il volto contratto rivelava in lui un senso d’orrore, di pietà, di concentrazione preoccupata, che faceva strano contrasto con quella sua aria pacifica da buon borghese.

      Stava lì sulla soglia e guardava il suo agente, senza vederlo. Parlava tra sé, smozzicando le parole tra i denti.

      «Mah!… Un brutto delitto… E chi ci capisce un accidente, è bravo!… Perché quel disgraziato è venuto a farsi ammazzare proprio qua dentro?»

      S’accorse che l’agente stava seduto davanti a lui e lo guardava, sorpreso. Batté gli occhi, come se si svegliasse.

      «Avete frugato dappertutto, voi?»

      «Così, cavaliere… Una prima occhiata!…»

      L’agente si era alzato e, quando gli fu vicino, gli disse con accento desolato:

      «Intanto…»

      «Intanto ce lo tolgono, eh?»

      «Già… Lei, cavaliere, ha chiamato il commissario De Vincenzi, no?… Squadra mobile… La Centrale assumerà direttamente le indagini… È un delitto importante. A noi ci lasciano i furti e gli scassi…»

      Lo scatto del commissario fu sincero, quasi violento.

      «E voi ringraziate Iddio, questa volta!»

      «Oh! Per me… Ma davvero a lei sembra tanto oscuro questo delitto?… Il nome sulla porta… il nome nelle tasche del morto… la porta spalancata e senza segni di scasso… le luci accese…»

      Maccari lo interruppe con bonarietà.

      «Spente, figlio mio!»

      «Ma no, cavaliere!… Accese… Tutte come adesso, le abbiamo trovate… tutto l’appartamento illuminato a giorno…»

      «Già! E c’era buio… Buio!… Le luci erano accese, ma c’era il buio, figlio mio… e qualcosa di losco, di viscido nel buio, date retta a me!… Non è finita! Vi dico io che questa storia è appena cominciata!…»

      Sulla porta di fondo era apparso De Vincenzi. Dietro di lui si vedeva il volto curiosamente proteso dei due agenti, che egli conduceva con sé.

      «Buona notte, Maccari!»

      «Ciao!… Scusami d’averti disturbato, ma non potevo fare altrimenti…»

      De Vincenzi si guardava attorno. Fissò subito il lampadario, che era tutto acceso, e batté le palpebre a quel chiarore, perché lui veniva dalla strada con la nebbia.

      «Figurati!… E poi… Tu non sai ancora quanto hai fatto bene a chiamarmi… Ti dirò…»

      Si guardò di nuovo attorno.

      «Tutto così?» chiese.

      «Tutto» rispose l’altro. E nella sua voce c’era come un accento di condiscendenza. Maccari sapeva quel che adesso il suo collega più giovane si sarebbe messo a cercare. Le tracce, gli indizi, le orme, la cenere delle sigarette, il profumo nella stanza… E non ne rideva neppure, del resto.

      Ma volle mettere le cose in chiaro.

      «Del resto, io sono venuto da un quarto d’ora, soltanto… Ho dato un’occhiata… Mi son reso conto che l’affare non andava e t’ho telefonato subito… Tu sei giovane, hai da far carriera, tu!… Io?» Ebbe un sorriso amaro. «Oramai!… E per di più i morti mi fanno impressione. Ne ho visti da che vivo più d’uno… Forse, parecchi… Certamente troppi pei miei nervi!… Che vuoi?… L’uomo vivo lo detesto… Se fossi sanguinario, ucciderei, io! Ma l’uomo… cadavere mi fa pietà… e mi fa terrore.»

      Aveva avuto un fremito. Tornò a guardarsi attorno, per mutar corso alle idee.

      «Sì, tutto com’era quando siamo entrati. Il telefono è lì nell’entrata… Lo avrai visto… Ho telefonato alla Guardia medica, che mandino un dottore… Ma ce n’era uno solo, che ha dovuto avvertire un suo collega a casa… Verrà, quando verrà… È morto, può aspettare. Vuoi vederlo?»

      De Vincenzi non s’era tolto il cappello, per un’abitudine della sua professione. Quella per lui, in quel momento, non era una casa privata; era il luogo del delitto. E rimaneva lì, in mezzo alla stanza, con le mani nelle tasche del soprabito. Sì, il morto avrebbe dovuto vederlo, o presto o tardi. Ma qualch’altra cosa doveva dire, prima, al suo collega.

      Non ebbe esitazioni; sebbene un leggero fremito gli rendesse più acuta la voce.

      «Sai, Maccari? Questo è l’appartamento di Giannetto Aurigi e Aurigi, per uno di quei casi che non mi fanno meraviglia, tanto forte ormai è in me la convinzione che il caso solo ci governa, è mio vecchio amico… compagno di collegio… e proprio stanotte…» S’interruppe. Perché dir tutto? «Non importa!… Quel che importa, invece, è che, appunto perché Aurigi è mio amico, tanto più è necessario che io abbia i nervi a posto e che cominci dal principio a non commettere errori. Sento già che, se mi sfugge qualcosa, non mi ci ritrovo più. È meglio che vada adagio, con cautela.»

      Si tolse il cappello, perché sentiva caldo, adesso. Lo posò sul tavolo e sedette.

      «Raccontami.»

      Maccari lo aveva ascoltato, fissandolo. Lo scrutava, a quel modo che fanno le persone grasse e bonarie, con gli occhi socchiusi. Sembrava che ammiccasse, e non sorrideva neppure, invece. Ma quando parlò, sul principio, le sue parole erano venate d’ironia.

      «Sì, lo so, è un metodo anche questo… Adesso seguite il metodo, voialtri giovani… Ma aspetta… Mi son messo a studiare anch’io… Un po’ tardino; ma non credere che lo faccia per imparare. Lo faccio per rendermi conto di quanti errori abbia commesso o evitati io, così ignorante come sono, da trent’anni a questa parte…

      «I cadaveri ti rendono amaro, Maccari!»

      «No! Aspetta… Volevo citarti proprio io una regola del tuo metodo… Eccotela…»

      E la enunciò, come se recitasse un versetto imparato a memoria.

      «Il valore d’un fatto non è nella sua rarità, ma piuttosto nella sua volgarità e prima di pretendere alla chiaroveggenza di ciò, che è invisibile agli occhi della carne, conviene esercitarsi alla chiaroveggenza di ciò che è troppo visibile e, appunto per questo, non attira l’attenzione…»

      S’era accostato, rivolgendo adesso verso di sé le punte della sua ironia.

      «Bello, eh?»

      «Se si potesse far sempre a quel modo!… E così?»

      «Così, meno d’un’ora fa, ho ricevuto una telefonata… Venite subito in via Monforte, quarantacinque… è stato commesso un assassinio… Chi è che telefona?… Pronto! Pronto!… Ma la comunicazione era stata tolta… Con gli automatici, lo sai, non si può controllare di dove telefonano… Sono stato un po’ in forse. Ti confesso che sulle prime ho creduto ad uno scherzo… Poi mi son detto: se faccio una passeggiata e non trovo niente, il male è minore di quel che sarebbe, se il morto ci fosse e io non vi andassi… Arrivo qui e trovo il portone semichiuso, la luce accesa per le scale come rimane di solito tutta la notte nelle case signorili e non un’anima… Ma il portone era semichiuso.


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