Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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deschetto da calzolaio sedeva il marito. Aveva un testone enorme, il volto raso, giallastro, e gli occhi a fior di testa con tutti i segni caratteristici del morbo di Basedow. La donna era ancora piacente e non doveva aver superato la trentina. Stava seduta al tavolo, con un giornale spiegato davanti e le braccia tese sul foglio. S’alzò e chiese subito con arroganza: «Chi siete?». La voce roca era sua. «Un commissario di polizia».

      La donna tacque, fissandolo. L’uomo depose la scarpa, che aveva tra le ginocchia, sul deschetto e rimase col trincetto in mano, lucente.

      «Chi ha chiuso il portone, ieri sera?».

      «Io» rispose la voce acuta di lui.

      «A che ora?».

      «Alle dieci».

      «Dove dormite, voi due?».

      «Là» indicò la donna, voltandosi verso il fondo, dove una tenda a fiorami rossastri doveva evidentemente coprire una porta.

      «Siete andati subito a letto?».

      «Lei c’era già. Si sarà coricata alle nove. Io sono andato a letto poco dopo mezzanotte».

      «E dalle dieci a mezzanotte?».

      «All’osteria, in via Battisti. Ci sono i testimoni. Ho l’alibi…».

      «Parlate troppo! Nessuno vi chiede un alibi. Quando siete tornato, eravate ubriaco?».

      «Non mi ubriaco mai, io. Tutti glielo possono dire». «Bene. E tornando, avete trovato il portone chiuso?».

      «Può darsi. Io l’ho chiuso, a ogni modo».

      «Rimane chiuso tutta la notte?».

      L’uomo alzò le spalle rachitiche.

      «Che vuole che le dica? Dovrebbe rimaner chiuso. Ma con gli inquilini che abbiamo!».

      De Vincenzi si guardò attorno.

      Stava per andarsene. Si fermò per chiedere: «Avete sentito rumore, stanotte, dopo la una?».

      «Uh!» fece la donna con quella voce profonda, che non sembrava sua «tutte le notti si sente qualche rumore. Ubriachi che rincasano. Qualcuno che litiga. Non ci si bada più, ormai».

      «Ma due colpi di fuoco?».

      «No» rispose la donna con prontezza per nulla sorpresa dalla domanda.

      «Quando sbattono il portone, per richiuderlo» aggiunse il ciabattino «è come una rivoltellata…».

      De Vincenzi lo fissò.

      «Allora, voi li avete sentiti?».

      «No» disse l’uomo, con un sogghigno. «Non credo. La notte scorsa nessuno ha sbattuto il portone!».

      E rise.

      «Questo non impedisce che ci sia stato un morto, stanotte, qui dentro».

      I due tacquero, senza dar segni di meraviglia. De Vincenzi sentiva come un’oppressione. Coloro erano cinicamente ripugnanti. Anche se avessero saputo qualcosa non l’avrebbero detta. E uscì. Aveva dovuto reagire violentemente a se stesso, per scacciar la convinzione che l’uccisione del senatore Magni fosse un delitto di teppa.

      Là dentro, davanti ai portinai, a sentirli parlare, a guardarli, era quella l’impressione che aveva avuta.

      Un agguato nella strada buia. Due colpi. Lo svaligiamento del cadavere, che avevano trascinato prima nel cortile e poi nel retrobottega della libreria.

      Vedeva la coppia losca spiare le mosse degli assassini e tornarsene a letto, quando tutto era finito.

      «Stanotte, farò appostare gli agenti attorno alla casa e procederò a un repulisti generale!» pensò e sorrise. Lo poteva fare. Ma non sarebbe certo servito a fargli scoprire l’assassino. Anche se qualcuno del casamento lo avesse veduto, non avrebbe parlato.

      L’assassino non abitava in quella casa, non era un teppista, aveva una calligrafia da uomo colto e…

      Chi sa se aveva telefonato di nuovo quella donna, che voleva parlare con un commissario alle sette del mattino e che, quando le avevano dato la comunicazione, era scomparsa! Il suo chiodo fisso.

      Tornò nel negozio e trovò il dottore che, scostato il mucchio di libri, s’era messo a sedere sopra il bancone della prima camera, con le gambe penzoloni e i piedi che quasi sfioravano quelli del morto, tanto lo spazio era ristretto là dentro.

      «E così?» chiese il dottore.

      «E così… Speriamo che venga presto il giudice istruttore, per la rimozione del cadavere. Io ad ogni modo faccio venire l’autoambulanza, pel trasporto al Monumentale. Vorrei l’autopsia oggi stesso. Ma prima…».

      Si chinò sul cadavere e cominciò a frugarlo, in tutte le tasche, togliendone quel che contenevano. Aveva disteso per terra il fazzoletto di seta, preso dal taschino del morto, e vi andava deponendo man mano quanto trovava.

      Quand’ebbe finito, raccolse gli oggetti e le carte nel fazzoletto e si alzò.

      Il dottore aveva chiuso la busta nera dei ferri e se l’era messa sotto il braccio.

      «Me ne vado… A che ora il cadavere sarà al Monumentale?».

      «Verso mezzogiorno al massimo».

      Chiamò Cruni e gli disse di telefonare per l’autoambulanza e di avvertire la Procura del Re.

      «E così?» gli chiese il Questore, quando lo vide riapparire in negozio.

      «Possiamo andare, se crede. Qui rimarrà Cruni, fino a quando abbiano portato via il cadavere e io sia tornato. Il giudice istruttore può far da sé. Forse, sarà bene non tardare più oltre ad andare in casa Magni… La signora può ricever la notizia da qualche altro…». Il Questore si alzò.

      «Ha scoperto come abbiano fatto a entrare qui dentro?».

      «Per la porta del cortile» rispose De Vincenzi, guardando Pietrosanto, che aveva levato la testa. «Ma se era chiusa!» esclamò il povero Gualmo. «Doveva essere aperta, invece. Ma lo vedremo tra poco. Cruni non fate toccar nulla!». E il Questore e il commissario uscirono. Il dottore, passando per andarsene, s’era fermato a leggere il titolo dei libri, negli scaffali.

      «Posso scopare, adesso?» chiese Giovanni. Gualtiero Gerolamo lo fissò, senza capire quel che diceva.

      R

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      Tre donne

      Qui la scena mutava.

      Due o trecento metri di distanza e il mondo era un altro.

      Il senatore era stato trovato cadavere in via Corridoni, tra i libri; ma aveva vissuto in viale Bianca Maria. Questo era il suo ambiente. E quando De Vincenzi si trovò sotto l’androne di marmo variegato, tutto lucente d’ottoni, di specchi, di cristalli, e sentì la suola delle scarpe aderire al caucciù del pavimento, comprese quali fossero state e di che natura le sue sensazioni di poco prima. Era il senso dell’illogico, che lo aveva colpito dentro la libreria, con quel cadavere troppo elegante, troppo nobile e raffinato, disteso tra la polvere delle stanzette, tetre come il fondo di una palude. Melmose. Il contrasto urlava. Un cucchiaio d’oro nel fango. E tornò a chiedersi come mai e perché mai il morto avesse esulato dal suo luogo naturale. Perché la figura fosse uscita dal quadro.

      Tutto era illogico quanto stava accadendo da qualche ora. Ma in ogni fatto successivo si trovava quel contrasto strano e pesante: il pacco col camice e i ferri era stato raccolto da uno spazzino e aveva girato sopra una carretta da immondizie; il delitto aveva tutte le apparenze della volgarità più abbietta, eppure nulla era stato tolto di dosso all’assassinato, neppure i tre fogli da mille, che potevano essere spesi facilmente.

      Una sola cosa mancava: il cappello.


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