Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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al momento dell’uccisione. Ma, se il delitto era stato compiuto per la strada, ipotesi plausibile, come mai l’assassino non si era dato cura di raccoglierlo, dal momento che aveva avuto la preoccupazione di trascinare il cadavere fin dentro al negozio? Per ora — per ora soltanto, è vero — si doveva ammettere che colui o coloro che avevano commesso l’omicidio avessero voluto ritardare il più possibile la scoperta del cadavere. Altrimenti, lo avrebbero abbandonato per la strada.

      Il commissario fece involontariamente un gesto di diniego. No! Non era quella la ragione. Ma piuttosto che essi avessero voluto fuorviare le ricerche, imbrogliare il più possibile le cose.

      Ebbe la percezione dello sguardo penetrante del Questore fisso su di sé e gli si volse. Il Capo lo guardava e sorrideva.

      «Che cosa non trova naturale, De Vincenzi? Lei sta facendo lavorare il cervello e non riesce a far combaciare le sue ipotesi!».

      «Proprio così, commendatore! Ma non parli ancora di ipotesi. Siamo soltanto nel campo della fantasia. E la mia non le nascondo che starnazza».

      L’ascensore si fermò di colpo.

      Uscirono sul pianerottolo. C’erano due porte, una di fianco all’altra. Sulla prima una grande targa d’ottone col nome del chirurgo, sull’altra nulla.

      Il Questore suonò a quella con la targa e dopo qualche istante si aprì la seconda. Apparve una cameriera assai graziosa, vestita di nero, col grembiulino bianco, un cappio di merletto inamidato al collo e un altro in testa, sui capelli biondi.

      «Vengono per un consulto? Il gabinetto è ancora chiuso. Il professore riceve alle undici».

      Il Questore avanzò verso di lei, seguito da De Vincenzi, che osservava le linee armoniose e procaci della giovane. Una bella figliuola, indubbiamente. Alzò lo sguardo al volto e vide due occhi grigi, luminosissimi, ma le occhiaie erano peste e le gote pallide, di quel pallore denso e ambrato delle bionde.

      «Vorremmo parlare con la signora».

      La cameriera sollevò le ciglia e negli occhi le passò un bagliore, che a De Vincenzi sembrò di paura.

      «A quest’ora? La signora non riceve nessuno la mattina».

      «Eppure, sarà necessario che ci riceva. Ditele che ho telefonato poco fa e che ho parlato proprio con lei…».

      La cameriera si ritrasse. I due uomini entrarono in una vasta anticamera ammobiliata con lusso pesante, quasi opulento, carica di tinte nere sulla tappezzeria, tutta corsa da bordure dorate alle pareti, con le sopraporte di legno intagliato. I mobili erano antichi e i quadri sicuramente di autore.

      Ma contro quelle tinte scure, sulla parete di sinistra, si apriva una porta a vetri, dalla quale veniva una luminosità chiara e quasi abbagliante. I vetri dovevano essere coperti all’interno da tende bianche, che trasparivano.

      La giovane aprì una porta e fece entrare i due visitatori in un piccolo salotto impero, severamente maestoso.

      «Abbiano la cortesia di attendere».

      E si muoveva, osservandoli con preoccupazione. Richiuse la porta.

      Il Questore guardò il commissario. «Da che parte cominceremo, per darle la notizia? Qui non sanno nulla. È mai possibile che credano ancora ch’egli stia dormendo nel suo letto?».

      De Vincenzi si strinse nelle spalle. Non aveva mai pensato che la moglie lo credesse, o, ad ogni modo, c’era sotto qualcosa. Per questo aveva chiesto di assistere al primo colloquio.

      La porta si aprì e i due uomini videro comparire una signora alta, bellissima, coi capelli d’ebano, il volto naturalmente pallido, lo sguardo dolce e penetrante. Aveva la bocca troppo accesa, come se si fosse dato il rossetto in fretta e senza guardarsi allo specchio o, forse, aveva esagerato di proposito.

      Si tenne per qualche istante in mezzo alla stanza, dopo aver fatto un cenno di saluto con la testa, fissandoli. «Voglia perdonarmi, signora. Le ho telefonato poco fa, chiedendo di suo marito. Sono il Questore». La donna sussultò.

      «Si è incomodato a venire proprio lei? Mio marito…».

      Il Questore non l’aiutò. Lei cercava le parole. Gli occhi le si fecero per un istante quasi supplici. Ma subito il volto le si irrigidì, le mascelle le si contrassero e lo sguardo divenne duro. Sollevò la persona con fierezza.

      «… Mio marito è fuori di casa».

      «Ma lei, signora, mi ha detto per telefono d’esser sicura che egli si trovava ancora nella propria camera».

      «Sì… infatti… Così, credevo. Invece, ho saputo poi dalla cameriera che era uscito molto presto questa mattina… insolitamente presto».

      «Ah!».

      Vi fu una pausa. Era evidente che mentiva. Ma quella sua menzogna, affermata con sicurezza, quasi con violenza, non si nascondeva, non cercava d’esser creduta. Sembrava dire: io mento, perché è necessario.

      Il Questore fece un passo avanti.

      «Signora, ho da darle una cattiva notizia…».

      Lei lo fissò e subito impose a se stessa una freddezza anche maggiore, glaciale.

      «Non capisco. E proprio indispensabile che lei la dia a me? Non può attendere il ritorno del senatore?».

      «Il senatore… non tornerà!».

      La frase gli era sfuggita e fissò in volto la donna, per osservarne le reazioni.

      De Vincenzi, lui, non l’aveva perduta di vista un solo istante. Tutto in quella donna lo interessava. Sentiva che da lei cominciava il mistero.

      «Che cosa dice?!».

      Adesso, la signora s’era scossa e aveva pronunziato quella domanda con violenza, anziché con terrore o con apprensione.

      «Perché non dovrebbe tornare? Alle undici cominciano i consulti e mio marito non manca mai al suo dovere».

      «E accaduta una disgrazia, signora!».

      Il pallore sul volto della donna si fece livido.

      «Una disgrazia!» ripeté e dovette appoggiarsi alla spalliera della poltrona che le stava vicina, per non cadere.

      Il Questore protese la mano. Lei alzò la sua, per respingere ogni aiuto.

      «Non importa. È passato. Può dir tutto. Ma dica la verità».

      «Suo marito è stato colpito da malore…».

      «No!» gridò la donna e di nuovo la voce le si era fatta imperiosa. «L’ho pregata di dirmi la verità. Che cosa gli hanno fatto?».

      Furono il Questore e De Vincenzi, che sussultarono a quella domanda. Dunque, sapeva che il senatore era minacciato. Ma a che cosa e a chi intendeva alludere precisamente?

      «Sì» fece il Questore, chinando il capo. «Sì, è proprio così. Gli hanno fatto qualcosa. Lo hanno ferito».

      Di nuovo la donna vacillò e di nuovo riuscì a vincersi. Ma lo sforzo era evidente e appariva quasi sovrumano.

      «Mi dica tutto» mormorò. «È morto?».

      I due uomini tacquero.

      Lei li guardava. Gli occhi le si erano empiti d’orrore. Le labbra rosse tremavano. Le uscì un gemito dalla bocca e sarebbe caduta, se De Vincenzi non l’avesse afferrata tra le braccia.

      La deposero sul divano.

      Il Questore corse alla porta e chiamò: «Qualcuno della casa! Non c’è nessuno?…».

      Da un angolo dell’anticamera apparve di colpo la cameriera. Si sarebbe detto che vi si trovasse in attesa e il Questore vide che era sconvolta e tremante.

      «Che c’è?… Dio mio!…».

      Intanto, si apriva la porta a vetri,


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