Terra vergine: romanzo colombiano. Barrili Anton Giulio
pesce; lance, o, a dir più veramente, lunghi e sottili bastoni di legno, la cui punta era indurita al fuoco, oppure formata di una cuspide di selce, o d'un dente, o di un osso acuminato di squalo. Quella povertà d'armi offensive, il difetto di armi difensive, dicevano chiaramente la semplicità dei costumi e la mitezza d'indole dei pacifici abitanti dell'isola. Che vivessero allegri lo diceva abbastanza l'umor gaio di cui avevano fatto prova recente: che non avessero da stentare la vita, era dimostrato dalla ricchezza vegetale del terreno e dalla varietà, dalla abbondanza dei frutti: che godessero anche di un certo ozio quotidiano, si poteva riconoscere dal fatto che molti di essi erano venuti alla spiaggia tenendo sul pugno pappagalli addomesticati, brave bestie chiacchierine, le quali andavano ripetendo a perdifiato intiere frasi della lingua dei loro padroni; una lingua per cui messer Luigi De Torres, interpetre della spedizione, era venuto invano; così poco ella somigliava a quelle del ceppo Arameo, che dovevano essere il suo forte!
Il pasto era imbandito, e l'almirante ne offerse ai naturali, specie ai vecchi e ai bambini. Non si è detto ancora, ma facilmente s'indovina che tutti gli abitanti del villaggio stessero a godersi la novità della scena, seduti sulle calcagna, secondo il costume di tutti i selvaggi. Qualcheduno dei vecchi accettò, per atto evidentissimo di cortesia; qualcun altro per curiosità, non riuscendo per altro a maneggiare convenientemente cucchiai e forchette; ma subito smessero, o fosse perchè non volevano mostrarsi ghiottoni, o perchè non gradivano la cucina dei figli del cielo.
Ma quando, per una delle solite disgrazie di tavola, che addolorano profondamente ogni buona massaia, cadde ad un cuoco e si ruppe in molti pezzi un gran piatto di maiolica, tutti quegli spettatori del primo ordine, giovani e vecchi, si buttarono avanti, per dividersi la preda. Era lucente la vernice di quei cocci, e chi poteva abbrancarne uno si stimava felice.
La giornata passò in quel dolce riposo. I naturali volevano condurre i figli del cielo a visitare i loro modesti tugurî; e qualche visita, alle capanne più vicine, fu consentita dall'almirante, a cui premeva di conoscere come vivessero, quali fossero i loro utensili domestici, e sopra tutto a che grado fosse giunta la loro agricoltura. Del resto, egli aveva già capito che non c'era da aspettare grandi cose. I regni di Cipango, del Cattaio, del prete Janni, erano ancora molto distanti; quell'isola non era forse che il più lontano avamposto delle Indie sospirate e sognate.
Sull'ora del tramonto, fu risoluto il ritorno alle navi. I naturali stettero estatici sulla rena a vedere i loro ospiti che montavano nei palischermi; ed anche aiutarono con le loro braccia a spingere in mare quelle massiccie piroghe. Ma quando videro allontanarsi l'uomo dai capelli d'oro, il padre, il dio di tutti quegli esseri sovrumani che erano scesi a visitarli, gettarono altissime strida, si sciolsero in pianti e lamentazioni senza fine.
– Ritorneremo, buona gente, non piangete, ritorneremo domattina; – andava gridando Damiano.
E col gesto li esortava ad avere un po' di pazienza. Poi, additando il sole, che tramontava da una parte, lo indicava rinascente dall'altra. Alcuni lo capirono, perchè si messero a ridere, battendo allegramente le palme.
La mattina seguente, come aveva promesso Damiano, i figli del cielo dovevano ridiscendere a terra. Ma assai prima che i marinai pensassero a calumarsi nei palischermi, il lido echeggiava di grida festose; molti naturali nuotavano allegramente intorno alle navi; e le lunghe piroghe, scavate nei tronchi degli alberi, guizzavano agilmente da poppa e da prora, portando fino a cinquanta selvaggi. Erano lunghe e sottili, le piroghe di quegli isolani; ma la loro snellezza era tutta a danno dell'equilibrio. Spesso accadeva che per un'ondata più forte delle altre, o per un tracollo improvviso, andasse capovolta la barca. Ma non si spaventavano per così poco, i naturali dell'isola; dato quel tuffo, erano subito a galla, e con certe zucche lunghe, tagliate di sbieco e usate a mo' di gottazze, svuotavano prontamente le loro saettìe d'un sol pezzo.
Coloro che avevano assaggiata il giorno innanzi la sbroscia dei marinai e provato il dente nel loro biscotto, portavano in iscambio le loro provvigioni di frutta e di pane. Avevano infatti una specie di pane, detto cassava, tratto dalle radici di una jucca, coltivata a bella posta nei campi, come da noi il frumento. La radice era fatta in minutissimi pezzi, tritata e ridotta in focacce, che disseccavano al sole; e poi, quando volevano mangiarne, la mettevano in molle. Quell'alimento era insipido parecchio, ma sano e nutritivo.
Non mancavano altri donativi: il cotone, ad esempio, di cui davano fino a venticinque libbre in cambio d'un pugno di perline di vetro. Alcuni, poi, avevano le nari bucate, e a quel forellino portavano appeso un pezzetto d'oro nativo. Barattavano volentieri quell'ornamento con un sonagliuzzo di bronzo. Ma di quei baratti si fece subito arbitro l'almirante, perchè l'oro doveva appartenere alla corona di Castiglia, e non dovevano farne incetta i marinai. Egli domandava ai naturali donde provenisse quell'oro; ed essi accennavano ad un luogo lontano sul mare, dalla parte di ponente, e frattanto rispondevano: Cibào.
Cibào! Non forse Cipango? E il pensiero di Cristoforo Colombo naturalmente correva alle ricchezze di quell'isola, che Marco Polo aveva descritta con sì vivi colori. Ed egli seguitava a segnare laggiù da ponente, dopo aver mostrato ad essi quell'oro; e proferiva il nome di Cipango; ma sempre i naturali seguitavano a rispondere Cibào. Cibào era dunque una corruzione di Cipango; facile corruzione, ad una distanza di due secoli. Cibào, dunque, laggiù. E l'isola in cui vivevano? Guanahani, rispondevano essi, Guanahani. Che cosa volesse poi dire Guanahani, era difficile sapere, essendo difficile il domandarlo. Ma questo importava assai meno. L'isola, visitata alla svelta, non aveva tracce di metalli preziosi. I suoi abitanti, poveri e semplici, vivevano di agricoltura e di pesca; poche ed infrequenti erano le loro relazioni coi naturali delle isole vicine, talune delle quali si scorgevano distintamente sull'orizzonte, a destra e a manca di Guanahani.
La giornata del 13 era trascorsa in queste visite, in questi scambi, in questi discorsi. La mattina del 14, l'almirante partì coi palischermi, per fare il giro dell'isola, tutta sparsa di lieta verzura, con qualche poco di terra coltivata, e capanne qua e là, presso le rive. La voce dell'arrivo degli ospiti celesti a Guanahani era corsa tutta intorno, anche nelle isolette vicine; e da ogni lido, al passaggio dei palischermi, erano frotte di naturali che innalzavano grida di festa e d'invito. Molti si gittavano a nuoto; erano tirati a bordo, regalati di perline di vetro, e rimandati contenti.
Ma niente era che trattenesse più oltre il signor almirante nelle acque di Guanahani. Gli si offrivano allo sguardo molte isole verdeggianti, che tutte parevano invitarlo. Scelse a occhio la più grande, che sembrava cinque leghe distante, e a quella drizzò il corso della sua squadra, nella mattina del 15; ma non potè, a cagione delle correnti contrarie, approdarvi che al tramonto del sole. Aveva intitolata la prima isola al Santo Salvatore; intitolò la seconda a Santa Maria della Concezione. V'ebbe, nella mattina del 16, le stesse accoglienze di Guanahani; ci ritrovò gli stessi costumi, la stessa nudità, la stessa età dell'oro in azione, ma senza alcuna abbondanza di quel prezioso metallo. A Guanahani aveva preso sette naturali, che gli erano parsi di più svegliato ingegno, e più pronti a formarsi un vocabolario spagnuolo per i primi usi della conversazione. E i sette naturali erano andati contenti fino all'isola vicina. Quando videro che l'almirante non voleva trattenercisi, ma salpava nello stesso giorno per andare più oltre, verso ponente, donde appariva un'altra isola più ragguardevole, incominciarono a dolersi, come tanti Melibei, di dover lasciare «il confin della patria e i dolci campi». Uno di essi, che era imbarcato sulla Nina, non stette lungamente a piangere; si tuffò in mare e a nuoto raggiunse una piroga di suoi connaturali, che passava da quelle parti.
Fu l'unico episodio spiacevole di quei primi giorni vissuti tra le isole. Alla terza di queste Cristoforo Colombo impose il nome di Fernandina, in onore del re di Castiglia, disegnando in cuor suo di chiamare la quarta col nome della sua regal protettrice, Isabella.
Gli abitanti dell'isola Fernandina somigliavano in tutto a quelli delle prime due isole; ma parevano più ingegnosi e più scaltri. Alcune tra le donne avevano dei piccoli grembiali di cotone; alcune altre giungevano al lusso d'una specie di mantello. Le abitazioni, costrutte di rami, di canne, di foglie di palmizio, avevano forma di padiglioni; grande pulizia e decenza ci regnava per entro; i letti erano stoie di cotone, sospese, chiamate dai naturali col nome di hamac. E il nome e la cosa dovevano incontrar favore in Europa.
Nella quarta isola, che fu chiamata Isabella, Cristoforo Colombo trovò bei laghi d'acqua dolce, e frutti svariatissimi, e sciami di pappagalli «che