Terra vergine: romanzo colombiano. Barrili Anton Giulio

Terra vergine: romanzo colombiano - Barrili Anton Giulio


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di verde.

      La bella sconosciuta del mar tenebroso, la donatrice del ramo di spino fiorito, era dunque là, manifesta allo sguardo di tutti. E tutti la divoravano con gli occhi. Fu necessario che l'almirante ripetesse l'ordine un paio di volte, perchè i piloti lasciassero di contemplarla, e attendessero alla manovra delle vele, che volevano essere nuovamente distese.

      Si procedeva, sempre aiutando il buon vento di levante, che aveva assistite le caravelle per quasi tutto il viaggio. E l'isola, scambio di essere accostata dalle navi, pareva venir loro incontro sulle acque d'argento. Perchè era un'isola veramente: l'occhio esperto del marinaio non aveva durato fatica a riconoscerla per tale. S'indovinava estesa di molte leghe; si vedeva tutta sparsa d'alberi come un giardino, ed era, come un giardino, tutta fresca e ridente, sebbene non offrisse allo sguardo che le silvestri bellezze di una incolta natura.

      – A te, Cosma! – disse Damiano al compagno. – A te che hai un occhio di lince e l'altro di falco, spetta di farti onore, questa mattina. Vedi tu case? palazzi? tugurii? e cittadini che aspettino sulla calata del porto?

      – Finiscila, matto! – rispose Cosma. – Io non vedo tugurii, nè palazzi, nè case. Ma qualche cosa vedo brulicare alla riva, e sbucare fra i tronchi degli alberi. Dovrebbero essere creature umane, poco vestite, assai poco vestite.

      – Ho capito; – disse Damiano; – tutta gente svegliata di soprassalto; molto curiosa per giunta; e non avranno avuto tempo a vestirsi. —

      Damiano interruppe a questo punto la sua chiacchiera, sentendo una mano che dimesticamente si posava sulle sue spalle. Si volse, e vide l'almirante; lui, proprio, il signor almirante del mare Oceano, ilare in volto, radioso nello sguardo, nobilmente vestito di una cappa scarlatta.

      – I miei Genovesi sono di buon umore, stamane? – diss'egli amorevole.

      – Io, sì, mio signore; – rispose Damiano. – Il mio compagno, invece, non tanto. Vedremo se le bellezze di… come si chiamerà poi quella benedetta città, che non si vede?.. Vedremo, dico, se riusciranno a scaldarmelo un poco. —

      Cristoforo Colombo sorrise, e passò. Ai due concittadini aveva rivolto il discorso nel vernacolo genovese. Quella mattina, felice com'era, trovò modo di parlare con tutti i marinai della Santa Marianella lingua di ciascheduno: in castigliano ai Castigliani, che formavano per la massima parte il suo equipaggio; in portoghese ai due Portoghesi, che v'erano associati, quasi per ragione di buon vicinato; in inglese e in irlandese all'unico Inglese e all'unico Irlandese, che c'erano come sperduti. Per costoro furono poche frasi, le sue, delle più comuni, di quelle che ogni marinaio intelligente può subito imparare in un porto straniero, come per prendere il verso della nuova lingua, e stabilire le sue prime relazioni, nei più urgenti bisogni della vita. Ed anche avrebbe potuto parlare islandese, se avesse avuto un Islandese a bordo; poichè, nella sua vita di marinaio, aveva anche approdato in Islanda, nell'ultima Thule degli antichi.

       Capitolo IV.

      Le maraviglie della terra promessa

      In un venerdì, che fu il 3 agosto del 1492, Cristoforo Colombo era partito dall'isolotto di Saltes, sulla costa occidentale d'Europa, per muovere alla ricerca del Nuovo Mondo. In un venerdì, che fu il 12 ottobre del medesimo anno, doveva egli approdare alla prima terra scoperta di là dall'Atlantico, dal terribile mar tenebroso. Ed ora seguitate a dir male del venerdì, gabellandolo sempre per un giorno nefasto, se ne avete il coraggio.

      Il disco del sole era già intieramente fuori delle acque, allorquando il signor almirante del mare Oceano diede il comando di gettare le áncore e di mettere in mare i palischermi. Il doppio lavoro fu compiuto alla svelta, da una marinaresca giubilante. Nella barca, come più capace, Cristoforo Colombo volle compagni i primari ufficiali della spedizione, Diego di Arana, grande alguazil, o capo di giustizia, Pietro Gutierrez, gentiluomo di camera, anzi cantiniere del re, diventato ragionier generale della squadra, Rodrigo Sanchez, ispettore d'armamento e revisore dei conti, Rodrigo d'Escovedo, regio notaio, Bernardino di Tapia, istoriografo, e Luigi de Torres, ebreo convertito ed interpetre per le lingue orientali, che si supponevano parlate laggiù. Seguivano i piloti, o luogotenenti di bordo, Pedro Alonzo Nino, Bartolomeo Roldan, Sancio Ruiz, Giovanni di Cosa. Il quinto, Perez Matteo Hernea, restava di guardia a bordo. Il ringhioso uomo non aveva creduto alla terra; lo puniva la sorte, non lasciandogli toccare fra i primi la terra.

      Nel bargio, che era il palischermo minore, l'almirante fece discendere i tre scudieri, addetti alla sua persona: Diego Mendez, il fedelissimo, Francisco Ximenes Roldan, il futuro ingrato, e Diego di Salcedo. Con essi, tra i marinai, diede posto a Cosma e a Damiano; segno di particolare cortesia per i suoi due genovesi. E non vorrete mica imputarlo di parzialità, per aver egli pensato in quella occasione ai suoi concittadini. Erano stati due marinai esemplari per tutto il viaggio; l'obbedienza, la prontezza al lavoro, meritavano un premio. Egli, del resto, quantunque li sospettasse di condizione superiore a quella che dalla loro scelta appariva, non mostrava di distinguerli dagli altri marinai, poichè li chiamava appunto tra i rematori.

      Ed egli, nella barca, ritto sulla poppa, dirigendo la voga, torreggiava su tutti i suoi ufficiali. Stringeva nel pugno l'asta dello stendardo; lo stendardo della capitana, quello che portava il gran crocifisso in campo bianco; mentre gli altri comandanti, Martino Alonzo Pinzon, della Pinta, e Vincenzo Yanez, della Nina, discesi anch'essi nei loro palischermi, impugnavano gli stendardi delle loro navi; di bianco, alla gran croce di verde, accostata dalle iniziali del re Ferdinando e della regina Isabella, sormontate dalla corona reale.

      I sei palischermi mossero a voga arrancata verso la riva, andando primo fra tutti quello che portava l'almirante. Questi e i compagni suoi erano presi d'ammirazione alla vista delle ampie foreste che vestivano le basse colline dell'isola, e dei frutti di specie sconosciute, che pendevano dagli alberi, fin sopra alle sponde. Il cielo era puro, le acque trasparenti come cristallo, l'aria tiepida e fragrante di profumi silvestri; tutto ciò che vedevano, tutto ciò che sentivano, era un incantesimo lieto.

      In prossimità del lido i vogatori presero a sciare coi remi, facendo girar destramente sul proprio asse la barca, affinchè presentasse la poppa alla spiaggia. Cristoforo Colombo fu il primo a balzar sulla rena, e i suoi ufficiali lo seguirono, ma a rispettosa distanza, reverenti e commossi, vedendo com'egli, toccato a mala pena il lido, cadesse ginocchioni, baciando tre volte la terra. In questo atto di omaggio a Dio lo imitarono tutti; ma forse nessuno versò le calde lagrime che un vivo sentimento di profonda gratitudine gli strappava dagli occhi.

      Alzatosi poscia da quella adorazione, Cristoforo Colombo sguainò la spada, dispiegò lo stendardo reale, e chiamati al suo fianco i comandanti della Pinta e della Nina, mentre facevano ala tutti gli altri ufficiali, recitò la preghiera latina che egli stesso aveva composta in viaggio, per quella circostanza:

      – Signore Iddio eterno ed onnipotente, che col sacro tuo verbo creasti il cielo, la terra ed il mare; sia benedetto e glorificato il tuo nome, sia lodata la tua maestà, che si è degnata di fare, per opera di questo umile servo, che il tuo sacro nome sia conosciuto e predicato in quest'altra parte del mondo1.

      – Amen!– risposero divotamente gli astanti.

      Finita la preghiera, l'almirante piantò lo stendardo, levò la spada, e battendone la punta sul terreno, prese solenne possesso dell'isola in nome del re e della regina di Castiglia, imponendole il nome di San Salvatore.

      Rodrigo di Escovedo, regio notaio, mise mano alla carta e stese l'atto, che Cristoforo Colombo firmò, e dopo di lui gli altri ufficiali. In quella occasione egli assumeva, firmando, i titoli di almirante, vicerè e governatore. E gli ufficiali, innanzi di firmare a lor volta, gli giurarono tutti obbedienza.

      Le cerimonie erano finalmente adempiute. Ufficiali e marinai potevano abbandonarsi alla gioia di quelle ore stupende, indimenticabili, che seguivano a tanti giorni, a tante settimane di stenti e di terrori. A tutti gli equipaggi fu data licenza di scendere a terra; armati, per altro, e con ordine di non allontanarsi dalla spiaggia, dove potevano preparare il loro pasto quotidiano.

      L'arrivo di quei marinai a terra fu la scena più graziosa, nel suo gaio disordine, che si potesse immaginare. Barcollavano


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In latino (e merita di essere riferito testualmente, poichè è composizione di Cristoforo Colombo): «Domine Deus æterne et omnipotens, qui sacro tuo verbo cœlum et terram et mare creasti; benedicatur et glorificetur nomen tuum, laudetur tua majestas quæ dignata est per humilem servum tuum efficere ut ejus sacrum nomen agnoscatur et prædicetur in hoc altera mundi parte.» La preghiera di Cristoforo Colombo, per ordine dei reali di Castiglia, fu usata in simili circostanze dagli altri scopritori spagnuoli, come Bilbao, Cortes e Pizzarro.