Eh! la vita. Luigi Capuana

Eh! la vita - Luigi Capuana


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— Vede com'è indulgente il sole? Si vela in questo momento per non offenderle gli occhi.

      Infatti Gabriele Loveni batteva rapidamente le palpebre sotto la falda del cappello di feltro grigio abbassata nel percorrere il breve tratto per montare in carrozza.

      L'avvocato osservava che sette anni di vita carceraria avevano lasciato un'indefinibile impronta nell'aspetto, nei movimenti e nel gesto del suo cliente, rimasto muto, assorto lungo il tragitto dal carcere alla stazione, e durante le tre ore passate in un angolo del «buffet» aspettando l'arrivo del treno che doveva portarli via. Il Commendatore, assaggiando appena le pietanze, guardava suo figlio con l'ansia di chi teme un pericolo e vorrebbe sviarlo, ora, con la sodisfazione di aver raggiunto lo scopo per cui aveva desiderato ancora di vivere in questi ultimi anni.

      Gabriele Loveni, lasciata spegnere fra le labbra la sigaretta avidamente cominciata a fumare, pareva smarrito dietro l'inseguimento di un fantasma fuggente.

      Si udì il fischio del treno che arrivava.

       * * *

      Dora indovinò sùbito, dal primo sguardo di suo marito, che astio e livore repressi fermentavano nel cuore di quell'uomo non ostante la replicata domanda:

      — Mi hai perdonato? Mi hai perdonato?

      — Altrimenti non sarei qui! — ella rispose, fissandolo.

      La prese per una mano, accarezzandogliela, premendola tra le sue, fredde come il ghiaccio, stringendola forte.

      — Mi fai male!

      Dora dovè ritirarla quasi con uno strappo.

      Li avevano lasciati soli intanto che di là preparavano la tavola per la cena. Si erano immaginati che quei due, dopo sette anni, avessero molte intime cose da dirsi a quattr'occhi. Invece pareva che le parole gli si arrestassero in fondo alla gola, e si mutassero talvolta in un sommesso gorgoglìo, allorchè Gabriele si fermava in quell'andare da un punto all'altro del salotto con cui tentava di vincere la evidente sua esaltazione.

      — Parla! Che vuoi dirmi? Sono disposta ad ascoltare tutto.

      Egli faceva cenno con la mano: Niente! Niente!

      E quando la signora Marozzi e l'avvocato Nerucci vennero a chiamarli, furono maravigliati di trovarli seduti, lei in un angolo del canapè, lui su una seggiola accanto al tavolino nel centro del salotto come due che avessero esaurito quel che dovevano dirsi.

      Attraversando il corridoio che conduceva alla sala da pranzo, Gabriele si era fermato davanti a l'uscio della camera maritale tastando con una mano la muratura, facendo il gesto di buttarla giù; ed era passato oltre.

      A tavola si mostrò inattesamente gaio, con strane intermittenze di ironici sorrisi, affermando che certe pietanze del carcere, quelle più comuni, avevano un sapore speciale, un profumo speciale che il palato, per l'assuefazione, ritiene e comunica per qualche tempo ai cibi di fuori; lo aveva sentito dire da parecchi recidivi che lo avevano sperimentato.

      All'ultimo cominciò a divagare, tra un sorso e l'altro di caffè, aspirando deliziosamente una sigaretta.

      — Avvocato, ricorda il dramma del Calderon «La vida es sueño»? Niente di più vero. Sogno futile, insipido spesso; bello, soave talvolta; atroce e terribile, più incubo che sogno... ordinariamente.

      — No, no! Protesto! — rispose l'avvocato!

      — Dora, dillo tu: che sogno è la vita?

      — Non è sogno, pur troppo! — gli rispose sua moglie.

      — Lei, mamma, dirà che è una novella, una fiaba non sempre degna di essere trascritta, è vero?

      La signora Marozzi si rivolse al commendatore Loveni:

      — Il miglior giudice è lei.

      — Discutere è dubitare. La vita, cara signora, per un vecchio come me, è quasi un ricordo e un rimpianto.

      Gabriele accesa un'altra sigaretta e, sorbito l'ultimo sorso di caffè, stiè un momento ritto su la persona, con gli occhi socchiusi, poi fece un cenno all'avvocato lo trasse in un angolo e gli parlò sottovoce.

      — Sì, domani — egli rispose. — Stranezza di signora; non sono mai riuscito a spiegarmela. La sua giustificazione, suppongo.

      Il viso di Loveni si oscurò, parve acquistare una durezza che l'assenza dei baffi e della barba rendeva più notevole.

      — Ha bisogno di riposo; vada sùbito a letto — suggerì l'avvocato.

       * * *

      Abbattuta la muratura, e fatto osservare al marito che i sigilli erano intatti, Dora aveva aperto l'uscio ed era entrata nella stanza maritale per spalancare la finestra e far dissipare il tanfo di rinchiuso.

      Gabriele rimaneva fuori torcendosi le mani, mordendosi le labbra davanti allo spettacolo di quella camera un po' in disordine, con una seggiola ancora rovesciata, i cocci della boccetta e dei vasetti del lavamano sparsi sul tappeto, una tenda dell'uscio strappata e pendente a metà dall'asta che la reggeva. Tutto gli faceva rivivere il terribile momento in cui, perduta la testa alla vista di quell'uomo che, datogli uno spintone, tentava di scappare, lo aveva rincorso pel corridoio e per le scale, sparandogli dietro parecchi colpi di rivoltella, uno dei quali gli aveva fracassato il cranio, giù al portone, dove lo aveva raggiunto.

      E di fuori, quasi un ostacolo gl'impedisse di entrare, egli guardava, con occhi stralunati, Dora che apriva le cassette interne di un armadio e ne traeva alcuni pacchetti di lettere, depositandoli sul letto là vicino, assieme con tre scatolini di pelle scura.

      Balzò dentro con un salto, mise il paletto all'uscio e si precipitò su uno dei pacchi di lettere, sciogliendone il nastro con mani convulse.

      — Senti — gli disse Dora. — Tu stai per apprendere un segreto che non ci appartiene e che noi dobbiamo conservare religiosamente. Giurami!... Io l'ho conservato a costo del mio onore.... Giurami!... Giura!

      Egli non l'ascoltava; apriva febbrilmente quelle lettere, dava ad esse un'occhiata, fissava Dora un istante, e riprendeva a leggere, mandando fuori, di tratto in tratto, ringhi e ghigni sarcastici, gettando per aria i fogli quasi provasse un'amara delusione o vi scorgesse un puerile tentativo d'inganno.

      — Giura! — ella insisteva. — Non vuol dire che ora sia morta: anzi!

      — Morta! Morta! — ringhiava lui, lanciando alla moglie terribili occhiate.

      — Prima della loro penosissima rottura — riprese Dora — io era stata fida depositaria di queste lettere compromettenti. Quell'uomo voleva riaverle, chi sa perchè, e quel giorno osò di trascinarmi per un braccio qui dove egli sapeva che fossero gelosamente conservate, cercando di riaverle con la violenza... Leggi leggi le ultime, queste qui...

      Egli non osava di credere ai suoi occhi. Quel nome di donna ripetuto tante volte, in ogni lettera, appassionatamente, non era di sua moglie.

      — Chi, chi scriveva? — egli urlò. Io veggo! Io indovino! Io sento!...

      E fiutava le lettere brancicandole.

      — C'è il profumo del tuo corpo! C'è il fluido del tuo spirito, sì, sì, non m'inganno... Non mi sono addestrato sette anni inutilmente per acquistare la veggenza che non inganna!

      Dora indietreggiava, indietreggiava a quel lento avanzarsi di belva che sta per slanciarsi. Con gli occhi sbarrati, le braccia protese, le mani aperte e le dita curve come grinfie, pareva ch'egli provasse la feroce voluttà di atterrire la vittima al punto di assalirla.

      — Gabriele! Gabriele!

      A così acutissimo grido di angoscia, nella turbata intelligenza di lui accadde dunque una scossa, una sosta, quasi nella tenebra che la occupava in quel momento scoppiasse tutt'a un tratto un lampo di luce?

      Egli si fermò, portò le mani alla fronte, stiè pochi istanti come in ascolto; la tensione di tutti i nervi che gli aveva alterata


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