Amedeide. Gabriello Chiabrera
Deh chi sarà nel ciel, che quinci tolto
L'aspro Ottoman, così dolente il faccia,
Come gli empi furor del duro Scita
Empiono di dolor la nostra vita?
LIX
Provin, provino, oh Dio! de' nostri affanni
Il gran martir nei proprj lor perigli,
Ed al peso sentir de' nostri danni
Dannati sian lor genitori, e figli;
Ma te la gioventù de' fervidi anni,
O speme del mio cor, sì non consigli,
Che dietro un nome lusinghier di gloria,
Di te stesso, e di noi perda memoria.
LX
Quando lucente, e di metal guernito
T'avanzerai ne le battaglie orrende
Rammenta, Trasideo soverchio ardito,
Di chi piangendo i tuoi ritorni attende.
Sì parla, e giù dal volto scolorito
Calda pioggia di lagrime discende;
Ma non scemando in Trasideo l'ardire,
Verso le donne amate ei prese a dire:
LXI
Guarderà su nel ciel questa mia vita,
Qual per l'addietro, alta Pietà divina;
Vuolsi sperar: non lusinghiera aita
D'uno Italico Eroe fassi vicina.
Con questi detti a confortarsi invita
L'anima bella de l'afflitta Egina;
Ma per conforto in van forma ogni detto:
Cotanto affanno le conturba il petto.
LXII
Ella ver Trasideo rivolge alquanto
Le vaghe ciglia, indi le affisa in terra,
E ne' begli occhi le lampeggia il pianto,
Cui per estrema forza il varco serra;
Poi dimessa dicea: vivrem mai tanto,
Che giunga il fin de l'odïata guerra?
Sì che d'avverse trombe al crudo orrore
Non ci si scota palpitando il core?
LXIII
Che più spero dolente? o che non spero?
E che dirti degg'io? corri in battaglia;
Tu de la patria, e tu di noi guerriero
Posar non dei, quando Ottoman n'assaglia.
Quì Trasideo non tacque: il tempo è fiero;
Con torbido furor Marte travaglia
Nostre speranze; e per trovar salute
È da provarsi in arme ogni virtute.
LXIV
Che fia non so; ben ho fermato in mente
Anzi fra duri acciar correre a morte,
Che del crudo Ottoman l'iniqua gente
Vincitrice mirar dentro a le porte,
Troverò requie infra le turbe spente:
Voi, quale aspetti miserabil sorte,
Eleggo non pensar; tormento immenso
Troppo suolmi assalir, s'unqua ci penso.
LXV
Cotal rivolto a le miserie incerte,
Egli dicea d'ogni speranza in forse.
Ella avendo a' sospir le labbra aperte
Dal nobil cor tale risposta porse:
Che per lo sangue mio fosser sofferte
Viltati indegne il Sole unqua non scorse,
Nè soffrirò, che per innanzi ei scorga,
Ch'a vil catena queste braccia io porga.
LXVI
Diasi Rodi al furor d'aspri nemici,
Chiudano in porto i vincitor le vele;
Me già non mireran Frigi, e Cilici
Portare urne da fonti, e tesser tele.
Per tal modo schernìa l'ore infelici
Tra le minaccia d'Ottoman crudele
La vergine superba; in rimirarla
Alto agitato Trasideo non parla.
LXVII
Ed ella fa recar candida vesta,
Che lungo studio di Meonia gente
Fra gangetiche perle avea contesta,
Giungendo a varia seta oro lucente.
Era quivi a mirar, ch'empio funesta
L'onde spumanti del Troian torrente
Con ampio sangue, e che sdegnoso ancide
Le Dardanie falangi il gran Pelide.
LXVIII
Mirasi poi da gran furor sospinto,
Che de l'estrema tomba il dono ei nega,
E sovra lui, che gli ha l'amico estinto,
Del terribile cor l'ira dispiega;
I piè trafigge al Cavalier già vinto,
E tra le rote del gran carro il lega:
Tre volte intorno a le muraglia ei gira
De i patrii alberghi, e seco dietro il tira.
LXIX
I superbi destrier volve e rivolve,
Il freno allenta ed implacabil fiede;
Ettor s'adombra d'una orribil polve,
E da l'alte sue torri Ecuba il vede.
Di sì nobile spoglia il busto involve
Al Cavalier, cui se medesma diede;
E soggiungea: quì ti sia specchio il vanto,
Onde il gran sangue tuo splende cotanto.
LXX
Sì disse alteramente; indi il sereno
Volto alquanto turbò, nè più ragiona.
Trasideo colmo di gran fiamma il seno
L'amatissima vergine abbandona;
Diparte, e pur tiensi cotanto a freno
Contra il dovuto ardir, ch'indi lo sprona,
Ch'ad ogni passo indietro ei si raggira,
E le bellezze abbandonate mira.
LXXI
Così sen va: poi che le scale ha scese,
E son de la sua donna i rai disparsi,
Al domestico albergo i passi stese,
Ed entra stanza, ove ha per uso armarsi;
Sceglie ivi scudo, luminoso arnese,
Ch'a fochi di Damasco ei fe' temprarsi;