Amedeide. Gabriello Chiabrera

Amedeide - Gabriello Chiabrera


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spada nemica,

       Ch'altra in guerra simìl non mi sia nota?

       Io da l'etate acerba a questa antica,

       O per prossima piaggia, o per remota,

       Ed in terra, ed in mar vibrate ho l'armi:

       Signor, studio soverchio è 'l rifrancarmi.

      XLVI

      Mentre così dicea, volge animoso

       Lo sguardo acceso di terribil lume,

       E su l'elmo scotea cimier pomposo

       Di fregi d'oro, e di purpuree piume;

       Sembra fra' suoi seguaci olmo frondoso,

       Che trema i verdi rami in ripa al fiume

       Sotto Aquilon. Folco godea, che 'l vede

       Fiero cotanto; indi moveva il piede.

      XLVII

      E venne in mezzo a la città. Raccolto

       Fra' termini, che 'l duce ivi prescrisse,

       Stava gran stuolo in lucide arme avvolto

       Per gir colà, dove chiamarsi udisse.

       Folco ivi giunto, fe' sereno il volto,

       Ed ivi i passi raffrenando, disse,

       Verso color, che con silenzio attenti

       Coglieano il suon degli aspettati accenti:

      XLVIII

      Che ratto in corso a noi difender mova

       Campion di fama, e di virtute altiero,

       Mentre l'aspro Ottoman forze rinnova,

       E schiera turbe ad assalirne, è vero;

       Dunque in tale stagion sia nostra prova

       Mostrar petto robusto, animo fiero,

       E con armata man cercar vittoria,

       O con nobile morte impetrar gloria.

      XLIX

      Così disse egli: un coraggioso ardore

       In quelle squadre stimolava i petti;

       Ed aprendo le labbra Ottario, fuore

       Sospinse altier cotal risposta ai detti:

       Diane assalto Ottoman, ch'al suo furore

       Questi miei fidi a la difesa eletti

       I varchi chiuderan del rotto muro;

       In vece loro alzo la destra, e 'l giuro.

      L

      Gli occhi aperse costui là dove il Reno

       Per sì famosa via lava Costanza,

       Molti anni in guerra esperto, e quinci il freno

       Di quelle armate torme ebbe in possanza.

       Folco al parlar di lealtà ripieno

       Accrebbe dentro il cor nova speranza;

       Poscia i vestigi invìa dentro la reggia,

       Ch'altri cercando ivi trovarlo deggia.

      LI

      E già, lasciando in ciel gli spazj oscuri,

       Chiudeasi il Sol ne le marine Ibere,

       Quando per nova guardia i fier tamburi

       Chiamando van le rassegnate schiere;

       E con sembianti a rimirar securi

       Avvolto in armi a meraviglia altiere,

       Da le cui folte gemme un lume usciva,

       Come di stelle, Trasideo sen giva.

      LII

      A costui di sue grazie il cielo avaro,

       Ben largo fu; diegli real beltate,

       Sì che sul fior di gioventute è chiaro

       Sovra ogni duce infra le squadre armate:

       Avea di Lesbo il regno; e i suoi regnaro

       Per la Tessaglia a le stagioni andate,

       E ne l'orecchie altrui fama spargea,

       Che da l'inclito Achille ei discendea.

      LIII

      Quinci a l'orror de le battaglie volto

       Non tralignò; pien di vigore il petto,

       Fortissimo di man, sul piè disciolto

       Non avea, fuor che d'armi, altro diletto;

       Ma pur d'Amore entro la rete involto

       All'imperio di lui si fe' soggetto,

       E grave piaga volentier sofferse,

       Ch'ammirabile donna in cor gli aperse.

      LIV

      Ella per l'Asia intorno era famosa,

       Non pure in patria, ed appellossi Egina,

       D'Argesto nata, e de la grande Ermosa.

       Suoi nobil pregi ogni superbia inchina;

       E beltà Rodi nominar non osa,

       Ch'a la beltà di lei vada vicina,

       Nè forza di tesor le venìa meno,

       Anzi d'ampie castella aveva il freno.

      LV

      Felice a pien; per Trasideo bramata

       Già da' suoi genitor gli si promise;

       Ma venne il Turco, e la stagione armata

       Celebrare Imenei non gli permise.

       Questa beltà fervidamente amata

       Ei per mirar alquanto in via si mise,

       Dando a gli sguardi suoi, che tempo corto

       Avean di rimirarla, alcun conforto.

      LVI

      Dunque volgendo al caro albergo i passi

       Per varchi chiusi a le straniere genti,

       Ampia sala trovò, per onde vassi

       In loggia aperta a lo spirar dei venti:

       Quì con la vecchia madre Egina stassi

       Splendida in gonna di tessuti argenti,

       E con l'eburnee mani ordiva rete

       Di fila aurate, e di cerulee sete.

      LVII

      Ma come il volto amato ebbe davanti

       In repentino oblìo sparse i lavori,

       Ed agitata ella cangiò sembianti

       Accesa il volto di più bei rossori;

       Nè meno in Trasideo; stile d'amanti;

       Si destaro nel sen geli ed ardori,

       Chè nell'istesso punto or rosso, or bianco

       Interrotti sospir trasse dal fianco.

      LVIII

      Ver lui, che contra lei s'era rivolto,

       Si move Ermosa, e con desir l'abbraccia,

       Ed indi afflitta gli diceva: ascolto

       D'armi orribile suon che 'l cor m'agghiaccia;

      


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