La carità del prossimo. Bersezio Vittorio
intervallo non sarò pagato, allora… Intanto mi stieno bene e ricevano i miei più cordiali auguri.
Uscì con mille inchini e salutazioni.
—Bella carità! esclamò Rosina facendo il pugno dietro il proprietario partitosi; quindici giorni di tempo! Come faremo a mettere insieme i denari dell'affitto?… ed a pagare gli altri debiti?… ed a mangiare tutti i giorni?
—Mi farò pagare dallo speziale, disse Antonio.
—Sì che questo ci vorrà mantener grassi!
Vanardi prese una grande risoluzione.
—E… e scriverò anche una volta una lettera di supplicazioni a mio zio padrino.
Il signor Marone scendendo le scale borbottava fra sè:
—È proprio strana! Una rassomiglianza cotanta non l'ho mai vista. Dev'essere quella dessa… Eppure!… Orsacchio!… Non ho mai sentito questo nome… Eh, sì! un nome si fa presto a cambiarlo. Ho sempre pensato che nell'esistenza di quei due c'era un garbuglio… Sta a vedere che adesso lo vengo a scovar fuori. Certo, agirò con molta prudenza, ma ho in mente che quel quadro non mi lascierà perder nulla della mia pigione, e che anzi vi può essere qualche buon affare da trarne profitto… Giusto! Di quest'oggi stesso voglio andare a Valnota a farne motto al signor Nicolazzi… Appunto con questa occasione ne esigerò l'affitto. Vedremo! vedremo!
V.
La Rosina, dopo la partenza del proprietario, aveva accennato di voler continuare il suo repetio; ma Vanardi era allora ricorso ad un suo mezzo estremo, di cui, appunto per non ispuntarne l'efficacia, non usava che rarissimamente, nelle occasioni solenni.
Questo mezzo era il seguente.
Si piantò ritto innanzi alla moglie, arruffatesi colla destra convulsa le chiome già arruffate, rotando paurosamente gli occhi come uomo che ha smarrito il lume della ragione, ed urlò con voce di basso profondo:
—Oh, sai che tu mi hai fradicio, e ch'io sono non so se più stufo o più disperato dei fatti miei? O la smetti od io, com'è vero il diavolo che mi porti, vado via, mi getto ad affogarmi nel Po, e ti pianto te coi bambini e l'amor tuo e la tua lingua, che son peggio della versiera.
Questa minaccia, in rare dosi, faceva sempre il suo effetto sulla buona moglie che in realtà voleva a suo marito il maggior bene del mondo. Rosina s'acquetò, e tornò a' suoi panni da cucire presso il desco, dove sedutasi, riprese a dondolar la culla dell'ultimo nato.
Vanardi, commosso da tanta virtù di sommessa rassegnazione, stette un poco a guardarla, e poi le si fece presso ed abbracciatala alle spalle, la baciò amorosamente sulla fronte.
La giovane donna arrossì tutta dal piacere.
—Ah! come saresti buona, disse Antonio, se tu non fossi così spesso cattiva.
—Io sono cattiva! esclamò la moglie levando su vivamente il capo. Sei tu che…
—Zitto, zitto; non rifacciamoci da capo. Voglio scrivere la lettera allo zio; e conviene che mi ci metta con tutti i sentimenti del corpo e dell'anima.
Il bambino nella culla ricominciò in quella a strillare più forte, e
Rosina dovette volgere ad esso tutta la sua attenzione.
Vanardi frugò tanto fra tutte le sue cose, che infine, per gran fortuna, riuscì a scovar fuori un biglietto di carta, che con un po' d'audacia d'espressione poteva dirsi bianco e polito; vi passo su due o tre volte la manica del vestito, come per lisciarlo viemmeglio; lo pose con una certa cura sopra la tavola; tolse d'in sulla scansia un fondo di bicchiere rotto, entro cui stava un pezzetto di spugna annerito da un inchiostro già asseccato; ci versò su alcune goccie d'acqua, e con uno spuntone di penna d'oca a barbe riccie e scarmigliate rimestò ben bene: poi sedette innanzi a quel foglio, il bicchier rotto lì vicino, la sua mano sinistra sopra la carta, nella destra quel simulacro di penna, ed aggrottò le sopracciglia in una meditazione laboriosa e profonda.
Rosina, poichè s'era accorta che nè il dondolarlo nè il cantargli la nenia valevano più a far dormire il piccino nella cuna, lo aveva levato su e lo teneva sulle sue ginocchia, parlandogli di parole senza senso e facendogli vezzi. Il bambino ora sorrideva, ora faceva greppo, ora metteva sue voci infantili, ora dava qualche pianto, in mezzo alle dolcezze, ai rimbrotti, ai parlari che gli faceva la mamma.
Gli altri fanciulli avevano ripreso della più bella il loro ruzzar per la stanza e facevano un chiasso che Dio vel dica. Tantochè il nostro Antonio, quand'ebbe scritto in alto del foglio: «Carissimo mio signor zio e padrino» e si volle concentrare per mettere insieme idee, non ne potè raccappezzare pur una in quel rumore di voci, di passi, di grida, che gli si veniva facendo dintorno.
Allora gittò con impazienza la penna sulla tavola, e ruppe fuori in queste parole:
—Eh! volete star cheti tutti quanti che il fistolo vi colga! Tonietto, sodo, dico, e va a studiar l'abbicì; tu Pippo, là in quell'angolo e fermo per mezz'ora; tu Gaetanino presso alla mamma e guai se ti muovi!… E tu pure, Rosina, taci tu stessa, se gli è possibile, e fa tacere il tuo fantolino un momento.
I bambini, alla subita sgridata paterna, stettero lì sorpresi, come e dove si trovavano, e guardavano attoniti il padre in volto senza muoversi più e senza accennar di ubbidire.
—Ebbene, avete capito o siete sordi? Corpo del diavolo! gridò Antonio, battendo sulla tavola un forte pugno che fece ribalzare quel frammento di bicchiere che faceva da calamaio.
Tonietto, il più grandicello dei bimbi, (gli aveva fatto dare a battesimo il nome suo e dello zio) non attese altro e sgusciò via lesto di là del paravento nell'altra parte della stanza; ma Pippo e Gaetanino, atterriti, cominciarono per far grosso il rifiato, poi diedero in qualche singhiozzo e finirono per iscoppiare in pianto dirotto.
—Ed ecco delle tue solite: gridò allora la Rosina: li fai sempre piangere ingiustamente tu!… Oh che uomo!… Venite qui carini, venite colla mamma, che il babbo gli è cattivo.
Ma Vanardi già s'era levato ed era corso dai figliuoli.
—Là, là, piccini: disse loro tutto amorevole: non piangete… Pippo sii buono… To' Gaetanino la chiave del papà e giuoca con essa… Da bravi, smettetela; adesso ch'io esco di casa vi andrò a comperare i confetti: che sì che vorranno esser buoni!
Ed il povero diavolo non aveva pure da comperar loro del pane!
Coll'accarezzarli, coll'abbracciarli, colle promesse, tanto ottenne che alla fine s'acchetarono; un certo silenzio relativo si stabilì nella stanza, ed egli potè dare tutta la sua attenzione alla compilazione della lettera per lo zio droghiere.
La qual lettera riusci del tenore seguente:
«Carissimo mio signor zio e padrino.
«Vengo con questa mia ad adempiere al mio dovere di augurarle il buon Natale ed il buon fine e il buon principio con tutte quelle felicità che si merita: e che Iddio gli conceda una lunga e prospera vita e una buona salute e una continua contentezza senza Dispiaceri di sorta.
«Questi augurii, oh glielo giuro, partono proprio dal cuore, e sono sinceri come se ne fanno pochi al mondo. Che io lei, mio buon padrino, non posso mai dimenticare di tutto l'anno; e ne vivessi ben cento di anni che non lo potrei mai; ma in questa stagione, in cui da tutti si pensa alle persone che ci sono più care, io ricordo anche maggiormente tutte le bontà del mio caro zio, e sento più forte ancora la riconoscenza per tanti generosi benefizi che ne ho ricevuti io specialmente, e che ne ha ricevuto la mia famiglia, e provo una pena grandissima d'aver offeso un sì buon parente e di non poterlo andare ad abbracciare, come ne avrei tanto desiderio che me ne struggo.
«Ma il Cielo, e riconosco io primo che non è stato altro che giusto e che io mi merito ogni peggio, il Cielo mi ha ben punito della mia disubbidienza,