La carità del prossimo. Bersezio Vittorio

La carità del prossimo - Bersezio Vittorio


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miei poveri bimbi, che a quest'ora ne ho quattro, e che sono innocenti, loro poverini, come agnelletti, ella ne avrebbe di sicuro compassione.

      «E gli è per questi piccini che io ardisco ancora venire a pregarla una volta, assicurandola che sarà l'ultima, perchè abbia pietà di noi disgraziati, che siamo pure suo sangue, e che siamo ridotti all'ultima miseria, senza nemmeno aver pane da mangiare. E dobbiamo la pigione dell'intera annata, e non possiamo pagarla; e il padrone che è un uomo senza cuore (ella lo conosce, quell'impostore del signor Marone) ci caccia in mezzo la strada, facendoci vendere tutte quelle poche robe che ci restano, e siamo in debito verso tutti sulla strada, tanto ch'io non oso più neppure uscire per andare ai fatti miei, vergognato come ne sono.

      «Insomma noi non abbiamo più nessuna speranza che in lei, e s'ella, che è la nostra Provvidenza, ci manca, io non so a qual disperato partito dovrò appigliarmi. Ma ella non ci abbandonerà, ed io ringraziandola anticipatamente, e rinnovandole tutti gli augurii, con profonda riconoscenza, mi dico

      «Torino, 16 dicembre 185….

      Suo umiliss. servo e nipote «ANTONIO VANARDI.»

      Rilesse attentamente il suo scritto, lo lesse alla moglie che lo trovò un capolavoro d'eloquenza, e sentenziò che se lo zio non cedeva era proprio con un ghiacciuolo per cuore. Non c'erano bustine da lettera in casa, quindi convenne che Antonio ripiegasse il foglio su sè stesso nella guisa più elegante che seppe: ma quando si trattò di suggellarlo fu certificata l'assenza eziandio di un'ostia o d'un bastoncino di cera lacca. Per fortuna Vanardi si sovvenne della crosta di pane che stava sopra la stufa, ne ruppe un pezzetto coi denti, lo masticò ben bene e se ne servì per chiudere il foglio. Poscia vi scrisse su l'indirizzo: prese il suo cappellaccio senza falda, si gettò sulle spalle un misero mantelluzzo di panno logoro, e disse alla moglie:

      —Vado a ricapitar questa lettera.

      —Che? interrogò Rosina, pensi forse tu di recarla tu stesso allo zio?

      —Oibò! fo conto di darla a Giacomo il figliuolo della portinaia qui sotto, pregandolo di recarla egli al fondaco di mio padrino.

      —Giacomo è un buon diavolo….

      —Un imbecille.

      —Che lo farà volentieri, non ne dubito; ma sua madre è così poco servizievole….

      —Per noi che non le diamo alcuna mancia, già; lo zelo dei portinai si misura agl'inquilini in ragione del denaro che ne mungono; ma questo è poi un così piccolo servizio, che spero non mi vorrà rifiutare. Intanto passerò eziandio dallo speziale per intendere un poco se mi vuol pagare, e poi farò una trottatina sino a casa di Selva.

      —Salutami sua moglie, quella buona Adelina…

      —Va bene.

      —Eccone lì una che fu fortunata. Era una operaia come me, ed ha sposato un uomo di una ricca famiglia, un avvocato e che le fa fare una buona figura nel mondo.

      Antonio si mise per traverso il cappellaccio e si morse i baffi.

      —Sai tu Rosina, diss'egli con accento in cui sentivasi una vera pena, che non sei punto punto gentile? Le tue parole sono sassi tirati nel mio giardino, che mi colpiscono proprio in pieno petto. Certo, l'Adelina è da invidiare. Selva è uno dei migliori caratteri ch'io mi conosca, ed un bel talento. Lui risoluzione, coraggio, iniziativa e forza d'animo e di volontà come ne hanno pochi; io sono un meschinello, un buono da nulla, un imbecille, va bene… Ma quanto ad amore, Rosina, dovresti esser persuasa che ne hai da me tutto quel che possa averne da uomo una donna, e ciò dovrebbe farti più generosa a perdonarmi il resto.

      Rosina, che in fondo aveva pure un cuore eccellente, fu tocca da queste parole del marito e più dalla commozione con cui eran dette.

      —Hai ragione: esclamò ella, alzandosi col suo bimbo da un braccio e cingendo coll'altro che gli rimaneva libero il collo del marito: Hai ragione e perdonami.

      Ad Antonio questo fatto della moglie produsse tanto maggior effetto quanto esso era più raro; abbracciò e baciò egli intenerito la moglie e il bambino ch'ella teneva sul petto, e partissi.

      La loggia della portinaia aveva sotto il portone l'uscio d'entrata ed un finestruolo per cui si vedeva chiunque penetrasse nella casa.

      Antonio sospinse l'uscio socchiuso ed entrò nel camerino. La portinaia seduta presso un fornello portatile di terra cotta era intenta a farvi cuocere su, dentro una pignatta, una minestra che mandava per l'ambiente un odore succolento e confortevole. Le nari di Antonio digiuno aspirarono con una voluttà tormentosa la tentazione di quell'odore. Un giovane dall'aria melensa e dai capelli color della stoppa stava grattandosi le ginocchia in un angolo: era Giacomo, il figliuolo della portinaia.

      Questa che aveva udito entrare qualcheduno senza veder chi fosse, per avere le spalle rivolte all'uscio, aveva preparato il suo più bel sorriso con cui già da una settimana soleva salutare gl'inquilini del primo e del secondo piano in previsione e per esca delle strenne che avevano da venire alla fin del mese; ma poi visto chi era, conobbe che quel sorriso era perfettamente sciupato e decise tosto risparmiarsene la spesa: tornò di botto in tutto l'ingrognamento della scontrosa espressione di faccia che le era abituale.

      Antonio, egli, salutò umilmente, e, con tutta la suggezione d'un supplicante che domanda una grazia, pregò sor Agata mandasse il figliuolo a recar quella lettera al suo indirizzo.

      Sor Agata indugiò un momento a rispondere. Fu presso a dire a quel noioso che andasse con Dio, come si fa ad un pezzente che vi secca domandandovi l'elemosina; ma ebbe la generosità di non farlo; prese con isgarbo la lettera che Vanardi le porgeva e ne lesse l'indirizzo.

      —Ah, ah! la scrive ancora a suo zio il droghiere… diss'ella con impertinente famigliarità: un altro foglio di carta sciupato… Bene; quando mi sarà di comodo manderò colà Giacomo.

      —Se volesse aver la compiacenza di mandarlo il più presto possibile: osò balbettare il povero inquilino.

      Ma la fiera portinaia lo fulminò con uno sguardo corrucciato che lo indusse subitamente al silenzio.

      —Lo manderò quando si potrà: disse sor Agata con accento imponente. Spero bene che ella non vorrà che per gusto di lei si trascuri ciò che abbiam da fare!

      Antonio protestò con una mimica piena di umiltà, ed uscì colla rassegnazione di chi non ha danari da pagare in altri lo zelo, l'interesse, nè anco la cortesia—perchè tutto si paga in questo mondo.

      Entrò quindi nella farmacia.

      Il farmacista leggeva il suo giornale seduto presso il braciere coperto da una gran campana di latta gialla traforata intorno a ghirigori, gli occhiali sulla punta acuminata del lungo naso, il solito berretto a lunga visiera in capo. Due garzoni si annoiavano colle mani in tasca ad aspettar gli avventori. Un uomo di servizio pestava nella retrobottega in un mortaio d'ottone che mandava il più assordante ed il più irritante rumore del mondo.

      Al tintinnio che fece il campanello appiccato all'ascio d'entrata, lo speziale alzò il naso dal foglio e guardò dal di sopra degli occhiali chi fosse venuto.

      —La riverisco signor Agapito: disse Antonio levandosi urbanamente il cappello.

      —Oh, oh, caro signor Vanardi; l'è lei! E che buon vento?

      Si rizzò da sedere con più gentilezza che non usasse abitualmente, si tolse di sopra il naso gli occhiali, ripose il giornale e toccò colla mano destra la tesa del suo berretto.

      Ad Antonio, avvezzo oramai dappertutto ad essere accolto con insolente mancanza di riguardi, parve quello un fior di accoglimento pieno di simpatia e di stima, e sentì venirsi in cuore un po' di coraggio.

      —La disturbo forse? dimandò egli come mezzo di entrare in materia.

      —Niente affatto. Si figuri!… Lei non mi disturba mai… Leggevo qui il giornale… Ma gli è vuoto come una vescica… Non c'è mai nulla in que' benedetti giornali!… Ci rubano i denari vendendoceli… Eppure, che vuole? Non ne so star senza… Ah!


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