Il 1859 da Plombières a Villafranca. Alfredo Panzini

Il 1859 da Plombières a Villafranca - Alfredo Panzini


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possessi che la Spagna da due secoli circa aveva in Italia, cioè buona parte d'Italia: il reame di Napoli, la Sicilia e la Lombardia. Se non che dopo alcuni anni gli stessi contendenti, cioè Francesi e Spagnoli da un lato e Imperiali dall'altra, essendosi trovati di fronte ancora per un'altra successione e il cannone avendo questa volta dato ragione all'Imperatore, il reame di Napoli e la Sicilia furono dall'Austria restituiti alla Spagna; e più precisamente se ne formò un piccolo e bel regno ad esercizio regale ed a conforto dei figli di Filippo Borbone. E fu in tale modo che cominciò in Italia quel dominio dei Borboni di Napoli, il quale durò per 126 anni, cioè sino al 1860. E in simile modo spenta la vecchia casa dei Medici in Toscana, vi si costituì un altro secondo regno, anzi gran ducato, a conforto dei figli dell'Imperatore d'Austria di Absburgo-Lorena, che durò sino al 1859; e in simile modo spenta la casa dei Farnesi in Parma, se ne formò un altro piccolo regno, anzi ducato, a conforto di un altro figliuolo di Filippo Borbone, la cui successione durò pure sino al 1859. E in simile modo per la pace di Aquisgrana, fu assicurata la Lombardia a Maria Teresa, di cui vive ancora la buona memoria in queste terre lombarde, benchè i successori di lei, quando del '59 si accomiatarono, non lasciassero certo nessuna brama di sè.

      Ma dunque l'Italia serviva come ricca merce di compensazione ai soccombenti in queste liti di Re? Dunque spenta una dinastia se ne sostituiva un'altra senza consultare il popolo? E il popolo d'Italia non insorgeva a simili mercati? Quel popolo d'Italia che vediamo nella lontananza dell'Evo Medio così pronto alle armi ed al sangue, così geloso dei suoi diritti, così indomito nelle sue passioni, che oppresse un primo e un secondo Federigo, pur d'onore sì degno, quel popolo che oggi s'aduna nei comizi e può imporre la sua volontà ai governanti, nulla vedeva, nulla sentiva allora di simili obbrobriosi mercati?

      O come la profezia dei nostri profeti, di Dante, del Petrarca, del Machiavelli si era compiuta! Ma dove era allora il popolo d'Italia? In verità v'erano dei nobili e dei cavalieri i cui privilegi non erano offesi per nulla da tali mutamenti politici. V'erano molti monaci e molte monache le cui dovizie e la cui troppo riposata vita non era turbata. Molti briganti e banditi pur v'erano la cui vita non era turbata, molto artigianato libero e tranquillo, moltissima plebe pasciuta, o rassegnata, a cui poco importava di Francia e Spagna, «basta che s'magna», come dice ancora il motto. Molti poeti pur v'erano che si ricordavano talvolta di variare il lamento su l'Italia, destinata a servir sempre, o vincitrice o vinta, una specie di fatalità, come la guerra, la fame e la peste. Del resto, questi numerosi intelletti canori erano onorati presso i Serenissimi Principi in premio di loro belle poesie per le nascite, per le morti, per le nozze, per le monacazioni, per l'esaltazione degli eccellentissimi prelati.

      E poi l'Italia con la voce dei Papi non comandava ancora «urbi et orbi»? e l'Imperatore d'Austria non rappresentava i Cesari? e quell'insalatuzza degli orticelli d'Arcadia non dava ancora l'illusione di un primato intellettuale? Era un così dolce stare tra quei boschetti d'Arcadia, quando un grido atterrì: era l'Alfieri. Era un così tranquillo occuparsi di antiquaria, quando una voce disse: occupatevi della Vita. Era il Leopardi. Ma quanto tempo occorse perchè quelle voci fossero udite!

      *

      O dolce conforto del non vedere e del non sentire, che il pietoso Iddio regala ai popoli destinati ad essere servi degli altri!

      Queste tre guerre furono combattute anche in Italia, benchè gli Italiani non facessero, essi, la guerra: la subissero soltanto, e con le sue conseguenze. Ma è bello ed è comodo trasportare il trambusto di Marte nella casa degli altri, specialmente quando essa vi si presta bene per la sua posizione. Infatti il dolce piano

      che da Vercelli a Marcabò dichina,

      pareva fatto apposta per le battaglie tra l'Impero, la Francia, la Spagna.

      Questa cosa, del resto, era avvenuta anche due secoli prima, nel Cinquecento, quando la patria nostra non «era soggetta ad altro dominio che de' suoi».

      Allora i magnifici signori e le potenti republiche nostre avevano con quel buon gusto che li distinguea assistito allo spettacolo di battaglie da giganti che in quel bel piano ci avevano favorito un cattolico Re di Spagna e un cristianissimo Re di Francia. Non solo assistito, tanto che l'Ariosto ne avea tolto il modello per le fantastiche guerre del suo folle Orlando, ma vi avevano anche partecipato, ciascuno secondo i propri interessi, ben si intende. Ci fu anzi una volta che in una di quelle battaglie uno di questi signori, forse in un istante di lucida visione, disse ai suoi artiglieri irresoluti se tirare contro gli Spagnoli azzuffati coi Francesi: Tirate senza timor di fallare chè son tutti nostri nemici.

      Ci fu anche un Papa, un vecchio bizzarro ed energico che leggeva Dante, il quale gridò: Fuori i barbari! Ma tranne questi casi isolati, noi Italiani fummo di una ospitalità classica: ospitalissimo fu Ludovico il Moro, il quale se non avesse dichiarato che l'Italia non l'aveva mai vista nè conosciuta, e che conosceva soltanto i suoi privati interessi, sarebbe stata la mente politica più fine del secolo XV. Ospitalissimi i nostri olimpici signori. Li accolsero nei loro incantevoli palazzi quei re d'oltremonte, li intrattennero in belli e savi discorsi di filosofia e di politica: l'Ariosto fece omaggio del suo folle Orlando: un pittore, il Tiziano, ritrasse le sembianze del più potente di questi re; un orafo, il Cellini, battè spade, elmi e corazze per l'altro re suo rivale: vi furono anche scambi di doni nuziali, finchè un bel giorno i signori d'Italia, così maestri nel «tessere una fraude», si avvidero di essere frodati. Uno di questi re, anzi re ed imperatore, ci aveva piantate le tende.

      Fu il popolo spagnolo che ci piantò le tende allora, e l'imperatore e re fu Carlo V. Un Papa, di nome Clemente, e quindi un altro Clemente, benedissero quell'imperatore e quelle tende, e costui li compensò aiutandoli a dare reale consistenza al lungo ambizioso sogno dell'Evo Medio, cioè a consolidare nel cuore d'Italia quello Stato della Chiesa che paralizzò il cuore d'Italia: grave accusa, in verità, contro il governo dei preti, e certo ad essi, che sono sottili dialettici, non mancherebbero nemmeno oggi buoni ragionamenti per dimostrare che quello Stato era reclamato da san Pietro o che quella morte in terra aiutava a conquistare la vita in cielo. Malauguratamente sino da quel Cinquecento il Machiavelli si fa publico accusatore di un'accusa molto grave: quando dice che è merito della Chiesa se l'Italia ha perduto ogni religione. Gli Spagnoli ci tennero le tende per quasi due secoli e ci insegnarono tutte le loro qualità cattive, tenendo per sè le buone.

      Dopo, come abbiamo veduto, ve le piantarono gli Austriaci quelle tende che il Manzoni nel 1821 e nel 1848 consigliava di levare, adducendo inoppugnabili ragioni di diritto divino ed umano:

      O stranieri, levate le tende

      Da una terra che madre non v'è.

      Se non che l'Austria riteneva quelle tende legittime e collocate da Dio, e tutto dà a credere che non le avrebbe mai levate di suo spontaneo volere.

      *

      Bel campo, dicevamo, per le battaglie questa, ahi, non più nostra Italia! E così avvenne una seconda volta durante le tre guerre di successione: scorrazzavano per le nostre terre e città eserciti imperiali ed eserciti gallo-ispani, e vi dimoravano per lunga stanza ed i buoni cittadini erano consigliati a far lieto viso, le dame a danzare in onore dei generali e marescialli, i municipi a pagare le spese. Erano fieramente nemici i gallo-ispani degli imperiali, ma in questo andavano d'accordo. Ci fu una volta, in una di queste città papaline, che uno di cotali eserciti imperiali annunciò la sua gradita partenza dopo un lungo periodo di saccheggi, uccisioni e feste per le nozze di una figlia di Maria Teresa. Prima di partire gli ufficiali del principe, generale supremo, fecero sapere ai consoli della città come fosse cosa di dovere e solita a praticarsi in ogni terra occupata da un esercito, l'offerire, allorchè questo è in procinto di andarsene, un conveniente regalo al generale, all'effetto di obbligarselo ed avere riguardo al territorio. I consoli con dignitosa prudenza risposero di conoscere il loro dovere; ma la Comunità versare in tali strettezze per le ingenti spese sostenute nell'onore di mantenere l'imperiale esercito, che non potevano spremere dall'erario la benchè minima somma. Allora quei signori dichiararono che il non dare ascolto al benevolo loro suggerimento equivaleva a vedere saccheggiata la terra. Fu adunato il consiglio della città e si deliberò di offrire al principe generale una borsa con duecento cinquanta zecchini. Tenue offerta! Ma le belle parole, umili, ossequiose; gli augurî di ogni prosperità a lui ed alle armi cesaree, fecero a Sua Altezza accettare il dono, oh non confacente


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