Il 1859 da Plombières a Villafranca. Alfredo Panzini

Il 1859 da Plombières a Villafranca - Alfredo Panzini


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la battaglia di Marengo furono di nuovo esposti i lumi per la Francia e fu cantata la «Marsigliese». Certamente molte cose in quegli anni mutarono, ma non così profondamente come può credersi pensando al principio di quel moto, cioè alla Rivoluzione. Le rivoluzioni hanno una certa somiglianza col corso dei fiumi. Noi vediamo i fiumi presso le loro sorgenti precipitare dai monti con impeto così grande che fanno paura e diciamo: Guai se essi devono seguitare così! Oh, non seguitano. Appena giunti al piano, dilagano e prendono corso tranquillo.

      Napoleone quando prese nome imperiale, mutò il rito; non si fece incoronare dal sacerdote, ma, come tutti sanno, si pose egli stesso la corona ferrea sul capo, pronunciando quelle famose parole che fecero stupire tutti e sorridere qualche filosofo: «Dio me l'ha data, guai a chi la toccherà!» Chi sa che anche egli non abbia creduto a quelle parole! Gli eroi dell'azione se non avessero fede nel sogno della loro onnipotenza, rimarrebbero inerti come certi eroi del pensiero.

      Mutò il rito e rimase l'impero: risorsero i titoli di conte, duca, marchese: scomparvero le immobili ricchezze del feudo e delle chiese; nacque la nuova, mutabile e maggior ricchezza dei traffichi e delle industrie. Cessò la tirannia dei nobili, germogliò quella che dovea crescere così fiorente, e fu detta tirannia borghese, e forse oggi è nata nuova tirannide

      che l'una e l'altra caccerà di nido.

      Poi Napoleone cadde in un tragico precipitare. Guerra di Spagna, di Russia, Lipsia, Waterloo, sono le tappe di questa caduta. Ritornò ancora l'Austria in Italia tenendo a mano i piccoli principi: fu cantato il «Tedeum» ancora, furono restaurate o, meglio, si desiderò di restaurare le cose come prima.

      *

      Ma a questo punto noi ci domandiamo: In questo alternarsi violento dal caldo al gelo, dall'azione alla riazione, dal «Tedeum» alla «Carmagnola», quale mutamento intimo, molecolare, era avvenuto nelle fibre del nostro popolo? e le plebi asservite che cosa avevano imparato dai così detti immortali principî dell'ottantanove?

      La risposta è difficile, ma ricordo che Michele il Pazzo, capo dei Lazzari, richiesto che cosa fosse uguaglianza, rispose: Poter essere lazzaro e colonnello. I signori erano colonnelli nel ventre della madre: io lo sono per la uguaglianza. Allora si nasceva alla grandezza, oggi vi si arriva. E dietro Michele il Pazzo sta tutta una schiera di morti, tragicamente sublime in quello sfondo sereno e ridente di Napoli: Caracciolo, Mario Pagano, Domenico Cirillo.

      Un giovinetto fremente incominciava in quegli anni un suo libro con le parole: «Il sacrificio della patria nostra è consumato». Venezia, infatti, fu sacrificata, ma dietro le sorgeva più grande patria, l'Italia.

      Meneghino, che dal tempo della battaglia di Legnano si era disabituato alle armi, imparò a marciare e a fissare in volto il nemico.

      Il «giovin signore» meditò su la politica e su le congiure: affronterà la carcere ed il patibolo.

      Pantalone, Brighella, Florindo ebbero un grande colpo in quegli anni e ne morirono, almeno come maschere.

      L'ultimo arcade ed abate si chiamò Giuseppe Parini, e dopo di lui i poeti non fiorirono più all'ombra dei troni, ma fra il popolo, e molti di essi oltre alla lira portarono la fiaccola e la spada: Ugo Foscolo, Giovanni Berchet, Goffredo Mameli.

       Di republica o di monarchia, di federazione o di unità si occuparono i nostri studiosi, per conforto di Napoleone, anzichè di antiquaria e di arcadiche ciance. Un vessillo anche ne fu dato!

      Infine in quegli anni furono seminati i denti del dragone da cui nacquero i liberatori della patria: Garibaldi, Mazzini, Cattaneo, Carlo Alberto, Cavour, ecc. Nacquero «sub Julio», sotto il nuovo Cesare, sotto Napoleone.

      Ma una mutazione non meno interessante si compì anche nei Serenissimi Principi, i quali, da allora in poi, si trovarono turbati nella loro serenità e dichiararono ai popoli che per l'avvenire li avrebbero governati da buoni padri. Dichiarazione preziosa che fa supporre il riconoscimento di aver governato molto male per il passato. Oh, li aveva ben ammoniti il Petrarca sin da lontano:

      Qual colpa, qual giudicio o qual destino

      Fastidire il vicino?

      Ahimè, gli ammaestramenti in poesia e in filosofia persuadono poco; ed è mortificante il pensare che occorra la Rivoluzione e il tamburo della rossa «Marsigliese» per insegnar qualche cosa!

      Dunque fu un gran bene la Rivoluzione francese? E di Napoleone lascieremo sempre l'«ardua sentenza» ai posteri? Bisognerà pur dire qualche cosa e dell'una e dell'altro, pur essendo persuaso di non piacere a nessuna categoria di lettori.

       Noi nelle scuole, nei libri, nei discorsi, abbiamo imparato a considerare la Rivoluzione francese il più gran fatto del mondo; il sangue delle sue vittime ci parve una purificazione e, svanendo, divenne come una cornice purpurea intorno a un quadro di incomparabile potenza e le disperate grida noi non le abbiamo udite, perchè suonava così giocondamente, così terribilmente la «Marsigliese» che non si potevano udire! Le orride megere[3] attorno al palco della ghigliottina in Parigi ci parvero giuste come le Parche. Abbiamo imparato che Marat aveva nel cuore il dolore dei secoli. E come noi, tutti, che assistemmo da un posto più o meno distinto al dramma meraviglioso; e se qualche solitario osava criticare o zittire, noi non chiedemmo: Perchè disapprovate o zittite? ma dicemmo: Fuori!

      Questo giudizio si è alquanto modificato da quando, per un bizzarro privilegio concesso a chi medita, siamo potuti entrare nel palcoscenico dove si svolse quel dramma. Ma di questa modificazione di giudizio è inutile parlare: esso è cosa più che altro soggettiva, mentre cosa obbiettiva è il fatto che la Rivoluzione di Francia è stata la generatrice della età nostra, nel bene e nel male, in ciò che si vuol conservare e in ciò che di lei si vuole distruggere o rinnovare. È evidente perciò che i figli la venerino come madre ed evitino di discuterla.

       Intorno a Napoleone poi molte poesie italiane, francesi, tedesche abbiamo anche imparato a memoria fin dall'adolescenza, ed abbiamo osato spingere lo sguardo sino all'alto vertice del suo monumento, sperso nel cielo come una guglia alpina: se non che altri, obbligandoci ad accostarci a quel monumento, ha fatto osservare che di cadaveri sono le basi, di sangue e di lagrime il cemento. Vero! ed avremmo inorridito se subito non ci fosse venuto a mente che gli uomini elevano di solito i loro edifici con simile macabro materiale costruttivo.

      Ce lo hanno anche rappresentato con Giulio Cesare, cavalcante cupamente per una via senza fine, lastricata di cadaveri allineati: meno impassibile di quei truci cavalcatori. Eppure, chi sa per qual malìa, noi non abbiamo potuto odiare. La nostra ragione non ha saputo vincere il nostro affetto. Sovente anzi l'affetto disse alla ragione: Guarda: una lagrima è impietrata nel suo ciglio!

      Infatti l'Austria quando di soppiatto, negli anni 1814, 1815, penetrò in Italia, trasse partito non soltanto dell'odio degli Italiani verso Napoleone per il molto oro e il molto sangue che costui richiese in quel suo ultimo, folle, disperato opporsi contro al fato; ma blandamente, astutamente cercò di insinuarsi nell'animo degli Italiani coi ricordi dell'antico tempo, delle antiche glorie municipali, della nostra storia passata. Un generale, il Bellegarde, presenta gli Austriaci come i nostri liberatori, dichiara che era suonata «l'ora della nostra redenzione», ci chiama «alla difesa comune», ci parla «dei nostri legittimi diritti». Anche di «indipendenza» ci parlarono gli Austriaci, della felice Italia formata di tante piccole patrie, delle arti anche, del piacere di rivedere gli amati principi e dell'odiato Brenno sul Campidoglio: un curioso miscuglio di antico e di nuovo fecero sventolare davanti alle nostre passioni.

      Era naturale. Napoleone non cadde per effetto di un solo colpo mortale, ma molti colpi mortali occorsero, come ad Orlando, affinchè fosse atterrato. Murat e Beauharnais, benchè avversi e avversati, pur si mantenevano con eserciti in Italia; d'Italia libera ed una parlò anzi il Murat con una voce che rimbomberà fra poco, ma che allora, fra il crollare dell'immane edificio napoleonico, non potè bene essere udita. Bisognava ricorrere ad ogni mezzo per atterrare il colosso e l'Austria ricorse sino a stimolare il nostro orgoglio di Italiani. Infine l'ultimo crollo avvenne, le macerie precipitarono, la tempesta delle passioni posarono come posa la polvere dopo che un edificio è caduto; e allora apparvero nettamente le cose: apparve l'Austria.

      Come e che cosa l'Austria


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