Il 1859 da Plombières a Villafranca. Alfredo Panzini

Il 1859 da Plombières a Villafranca - Alfredo Panzini


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      Colori esecrabili

      A un italo cor.

      *

      La storia delle armi e delle arti politiche per cui furono stracciati quei rei trattati del 1815, è la storia di questo libro.

      IL 1859

       Cavour.[4]

       Indice

      I Greci raccolsero l'antica storia nel nome di alcuni eroi, Ercole, Edipo, Prometeo; sterminatori di mostri, interpreti di enigmi, rapitori del fuoco.

      Noi non abbiamo più simboli, ma anche noi raccogliamo in pochi nomi l'opera di coloro che ci diedero una patria.

      Anch'essi furono eccitatori del fuoco, sterminatori di mostri, interpreti di enigmi. Noi ci accordiamo in quattro nomi, quattro figure; e, in qualche vecchia stampa di vecchie case, voi le potete vedere insieme: il Re, gran baffi, gran pizzo, gran forza; egli sta davanti, bonario ma risoluto. «A Roma ci siamo e ci resteremo!» Ha l'aria di dire proprio così. Ma Giuseppe Mazzini non ode; fa della palma letto alla guancia e sempre più s'assorbe in sè, sempre più macero e triste.

      Con le mani che escono dal poncio, come da una stola, Garibaldi posa piamente su l'elsa della spada. Figura esotica; venne da lontano, da un oltremare lontano. Eppure altre volte ti abbiamo incontrato nel cammino dei secoli morti.

      Ritornerai tu ancora?

      Una quarta figura: una barbetta caprina incornicia una faccia sbarbata, paffuta: occhiali a stanghetta: pare un vecchio. Invece è quello che è morto prima degli altri; nel colmo teso della vita la sua vita è stata spezzata. Pare il burocratico, il segretario degli altri tre. Cavour.

      Sì, un burocratico di molto concetto, un diplomatico pieno d'ordine. Eppure quel volto parve sospetto ad un occhio acuto che lo vide per la prima volta. «Si sente, si vede, si riconosce in lui il cospiratore».[5] Era von Hübner, l'ambasciatore austriaco. È vero che non doveva riuscire difficile per un italiano, semplicemente pensante, passare da cospiratore agli occhi di un personaggio austriaco; ma è anche vero che quell'uomo d'ordine uscì spesso dalle rotaie[6] della diplomazia e buttò per aria molte combinazioni degli altri diplomatici. Pare un melanconico ed era un giovane allegro. E Iddio lo ha aiutato, anche perchè lo ha fatto morire molto presto.

      Altre vecchie stampe ho visto che portavano accanto a Vittorio Emanuele una quinta figura: essa pure militaresca, anzi impettita, quasi geometrica; con i baffi diritti alla moda ungherese, il piccolo pizzo, i cernecchi dei capelli lisci, su le tempie. «Questo — e vi appoggiava un grande indice — è Napoleone III, Imperatore dei Francesi». Mi pare di vederlo quel mio vecchio maestro che ci parlava così. Era stato medico, e di che valore questo mio maestro! Aveva una testa che avrebbe ben servito per modello del Catone dantesco, se non che la sua barba era troppo tabaccosa, e i capelli troppo arruffati. Questo vecchio pensava e scriveva a modo dei prischi latini, e non essendogli permesso di portare la toga, vi suppliva con un gran scialle attraverso la grave persona.

      «Quello lì, vedete, è passato sul corpo di due republiche per fare l'Italia».

      Era un ammiratore grande di Napoleone III, che diceva aver conosciuto, giovanetto, in Forlì. Quella stravagante espressione di aver ucciso due republiche per fare l'Italia, era poco comprensibile a noi ragazzi. Ha fatto l'Italia, lui? A molti, oggi più che mai, questa affermazione sembrerebbe blasfema. Ecco, diciamo così: Ha permesso che quegli altri quattro si potessero fare il ritratto insieme. Questo Imperatore era un melanconico ed un credente in una fede irrazionale: il suo destino; e Iddio non lo aiutò.

      *

      Ma dietro questi personaggi famosi sta una schiera molto grande e confusa: essa si sperde lontana negli albori del secolo, si fa folta e poi dirada sino ad un impiccato recente. Comprende martiri puri, quasi verginali; comprende torbidi e audaci uomini, insofferenti dell'attesa, uomini di congiure e di sangue; solitari che dai libri meditati videro balzare fantasmi che additavano un'arma; preti che leggendo l'Evangelo, udirono il rimbombo della voce di Cristo; madri che dissero al figlio: «Va!» Noi non li nominiamo per devozione a quelli che sono men noti. La più parte di essi morirono giovani, affinchè il detto di Menandro si rinnovellasse,[7] e anche perchè così piacque all'Austria. Piacque all'Austria cospargere di sangue questa terra ritenuta soltanto la terra dei canti e dei suoni: ma essa era anche terra ferax et ferox, ferace ed indomita; e quel concime purpureo fu ottimo generatore di martiri. Noi non li nominiamo, ma ci piace commemorarli semplicemente con le parole del Poeta:

      Io vo' rapirti, Cadore, l'anima

      Di Pietro Calvi.

      Costoro sono il santo fiume umano, che inabissa e riappare, dilaga, si stringe, rugge; va per meandri strani, alimenta, fa la storia d'Italia.

      O padre Nilo, — chiede l'antico poeta[8] — quale origine hai tu? in quali terre nascondi le tue sorgenti?

      O fiume del martirio d'Italia, dove, come nascesti?

      *

      Il ritratto che Angelo Brofferio ci porge del Cavour, quando fu eletto deputato del '48, non è punto lusinghiero: «Qualche suo discorso nelle adunanze agrarie aveva potuto metterlo in evidenza esperto di traffici e versato negli studi economici e rurali; ma nessuno si accorse che nella sua mente germogliasse qualche peregrina idea e che nel suo cuore avvampasse qualche favilla di quel sacro fuoco che solleva gli uomini sopra la terra. Nuocevagli il volume della persona, il volgare aspetto, il gesto ignobile, la voce ingrata. Di lettere non aveva traccia; alle arti era profano; di ogni filosofia digiuno; raggio di poesia non gli balenava nell'animo; istruzione pochissima; la parola gli usciva dalle labbra gallicamente smozzicata; tanti erano i suoi solecismi, che metterlo d'accordo col dizionario della lingua italiana sarebbe a tutti sembrata impossibile impresa».[9]

       Non era bello, infatti, e il D'Azeglio, che fu bello anche come uomo, lo chiamava fra gli intimi el Pansciotel; e Hübner, che lo vide a Parigi del '56, al tempo del Congresso, dice di peggio: «che il suo fisico mancava di distinzione». Era così distinto il conte von Hübner![10] La sua natura era antipoetica come egli stesso dichiara; ma l'abbondanza degli spiriti poetici in Italia ci può compensare se Camillo Benso di Cavour era specialmente un intelletto matematico. Però «profano alle arti» non lo direi: un giorno tornando a casa (era del 1860 e di cose pel capo ne doveva avere parecchie), trova sul tavolo il progetto del regolamento d'ornato per la città di Torino. Il caso volle che, avendo un ritaglio di tempo, lo leggesse. «Quale fu il mio stupore!» — scrive[11] a quel sindaco — «Giammai lo spirito investigatore, intromettitore, seccatore dell'amministrazione produsse opera peggiore. Povera libertà a quali dure prove si sottopone. Non una finestra, non un balcone, non una cornice senza l'assenso preventivo del sindaco. Persino il colore delle pareti interne delle corti sarà sottoposto al gusto di quel funzionario e la censura con tutti i suoi rigori, applicata alle costruzioni. In verità se lo stampato non portava il bollo municipale, avrei creduto che si trattasse di un regolamento edilizio, redatto da un sinedrio di mandarini e ritrovato dai generali alleati nel palazzo comunale di Pekino. Per onore di Torino sospenda la discussione di quel progetto. Nella legge comunale che si prepara, sarà proclamata la libertà ai cittadini di ornare le loro case come l'intendono, epperciò la soppressione della giunta d'ornato. Massimo D'Azeglio mi dichiarò che, se non è morto o paralitico, si recherà al Senato per combattere un'istituzione altrettanto molesta ai cittadini quanto contraria all'arte ed al buon gusto. Faccia quell'uso che vuole di questa lettera, giacchè son deciso di combattere con tutti i mezzi di cui dispongo un tema così contrario al principio di libertà che deve informare tutte le nostre istituzioni se vogliamo diventare una nazione grande, forte ed illustre».

      Di lettere aveva realmente poca «traccia», perchè più che libri di letteratura, aveva letto libri di economia e di storia. Il suo amico e parente De La Rive[12] ce lo ricorda a Presigne, desto di buon mattino, per imparare l'inglese su faticosi volumi della «Storia d'Inghilterra»; ce lo ricorda nelle sue terre di Leri, in piedi dall'alba, tutto intento a


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