Il 1859 da Plombières a Villafranca. Alfredo Panzini
qualche marinaio disertore su la calata».[30]
Circa sei anni dopo il Persano salpò con la squadra; oh, ma non c'era più il Cavour a raccomandargli di fare in fretta, e tu lo sai, azzurro Adriatico!, e a ricordargli che c'è la fucilazione per chi diserta il suo posto.[31]
Ma specialmente abbondava nel Cavour quella forma di coraggio che è così rara, cioè il coraggio civile. Egli non giudicava menomamente uomo politico chi non avesse saputo sacrificare la sua popolarità al bene della Patria.
Nei due anni '59 e '60, in gran fretta, sotto il sereno e sotto la tempesta, furono tirati su i muri maestri dell'edificio nazionale, e fu coperto anche il tetto. Chi non è pratico di arte muraria crede che il più sia fatto; ma domandatene ad ogni buon muratore e vi dirà che quella è soltanto la metà del lavoro. Ora il Cavour non si nascondeva la difficoltà della seconda gran gesta, e che mettere in armonia gli interessi delle varie regioni era cosa più difficile che scacciare l'Austria dal Quadrilatero; nè si pensi che egli avesse propensione per una mano di calce piemontese, data in fretta da zelanti imbianchini in berretto burocratico, a tutto il portentoso edificio, «Il Parlamento sarà organo di concordia, non di tirannia centralizzatrice».[32]
Altre cose di lui come uomo politico converrebbe richiamare dal nostro oblio; ma alcune appariranno dal corso di questa narrazione; qui basterà ricordare una sua notevole dote per la quale non nominò eredi; quella cioè di non fare come il buon lazzaro che avendo provveduto al bisogno dell'oggi, dimentica che esiste anche il domani: io voglio dire occupare gli avvenimenti, non farsi occupare da essi.
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Prima di essere stato ministro del Re, il Cavour era stato giornalista e nel giornale da lui fondato «Il Risorgimento», il 22 marzo 1848, aveva publicato quello scritto notevole: «L'ora suprema della monarchia sabauda», il quale per lunghezza e per audacia può fare il paio con la non meno famosa lettera del Mazzini a Carlo Alberto del 1831. E fu anche publicista, e fra i suoi scritti più matematicamente dimostrativi, ricordiamo quello apparso del '48 nella «Revue nouvelle» di Parigi col titolo: «Des chemins de fer en Italie», etc. Vi si parla di linee ferroviarie, di trazione, di macchine; ma esse devono, oltre alle merci, trasportare anche quel terribile carico, per cui tanti doganieri allora vegliavano: le idee. A quello scritto sarebbe stata bene come motto la chiusa dell'ode del Carducci «Alle fonti del Clitumno»:
in faccia a noi fumando
ed anelando nuove industrie, in corsa
fischia il vapore.
Sono in quello scritto le idee del Gioberti e del Balbo, ma con in più un certo sapore di polvere. Quel birichin — diceva con dispetto il Balbo, alludendo a questo sapore di polvere, — «finirà col ruinare il magnifico edificio, eretto dal senno e dalla prudenza di tanti valentuomini».[33]
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E prima aveva viaggiato (1835) a lungo, ripetutamente, Svizzera, Inghilterra e Francia, in compagnia di un amico anche più giovane di lui, il cui cognome era una memoria e una gloria: Pietro Derossi di Santa Rosa: in Parigi aveva, frequentato il gran mondo dei salons; a Liverpool, Cambridge, Londra aveva visitato e studiato officine, industrie, istituti, macchine, etc. Aveva viaggiato, dunque, per acquistar «virtute e conoscenza» come dice Dante, e per divertirsi anche. Ma studiando e divertendosi, l'orecchio non perdeva una battuta di ciò che cantava il novello coro del gran dramma della vita, cioè l'opinione publica; giacchè oramai è deciso: i protagonisti delle moderne tragedie e commedie della vita sono costretti ad agire molto in conformità con l'intonazione del coro. Questa cosa oggi è manifesta a tutti; tanto che gli uomini dabbene rivolgono ogni loro cura affannosa affinchè questo gran coro canti nel modo meno stonato che sia possibile. Ma in quegli anni, prima del '48, occorreva una certa disposizione filosofica per notare un fatto che era appena in sul primo manifestarsi: disposizione tanto più encomiabile trattandosi di un giovane di venticinque anni e vissuto fra quel ceto aristocratico dove tali fenomeni si avvertono in ritardo e con olimpica indifferenza.
Il passo riferito, ove accenna al necessario avvento delle democrazie, è fortemente illustrativo. E perchè non farne un raffronto con l'avvertimento che il Mazzini dava a Carlo Alberto nella famosa sua lettera del '31? Dice: «Oggimai la causa del dispotismo è perduta in Europa. La civiltà è troppo oltre perchè l'insania di pochi individui possa farla retrocedere. I Re della lega lo intendono, ma sono troppo in fondo per poter risalire. Essi lottano disperatamente col secolo, e il secolo li affogherà».
Conoscere e divertirsi, ma anche togliersi da quell'atmosfera di cupa oppressione che gravava sul natio Piemonte. «Qui» (cioè in Torino) — scrive al De La Rive nel '43 — «io vivo in una specie di inferno intellettuale, cioè in un paese dove l'intelligenza e la scienza sono considerate cose infernali da chi ha la bontà di governarci. Sì, mio caro, sono già due mesi che io respiro un'atmosfera piena di ignoranza e di pregiudizi e che io abito in una città dove bisogna nascondersi per scambiare qualche idea che esca dalla sfera politica e morale dove il Governo vorrebbe tenere imprigionate le anime. Ecco ciò che si chiama godere la felicità di un governo paterno».[34]
Non vengono in mente le tetre querele di un'altra anima imprigionata, il Leopardi? Felice il Cavour a cui natura concesse la forza lieta dell'azione, del far della storia; non le malinconie del pensiero, del meditar su la storia.
Sia lecito fare un raffronto con questo passo del Cattaneo dove, ricordando i nobili esuli lombardi, ritornati in Milano dopo l'amnistia del 1838, dice: «V'erano tuttavia molte famiglie antiquate, che imaginando ancora di vivere ai tempi del Sacro Romano Impero, non si reputavano disonorate della presenza dei soldati stranieri. Ma i reduci, valendosi dell'autorità di eleganti dettatori che dava loro la lunga dimora fatta in Londra e in Parigi, ammaestrarono quella stolta gente a serbare al cospetto degli stranieri i doveri della nazionale dignità».[35]
«Nos patriam fugimus, nos dulcia linquimus arva». E di abbandonare per sempre la patria dava consiglio al giovane Cavour la contessa Anastasia de Circourt-Klustine.[36] La lettera del Cavour a questa dama è fremente di tale passione che lo stesso Brofferio si sarebbe ricreduto dei suoi giudizi. Oimè, come diceva Solone a Creso, noi non ci conosciamo che dopo la morte, se ci conosciamo pur allora! «No, madama, io non posso lasciare la mia famiglia e il mio paese. Santi doveri mi trattengono presso un padre e una madre che mai non mi diedero motivi di lamentarmi. No, madama, io non infiggerò un pugnale nel cuore dei miei genitori; io non sarò mai un ingrato verso di loro, io non li abbandonerò se non quando la morte ci separerà. E perchè, madama, abbandonare il mio paese? Per venire in Francia a cercarmi una rinomanza nelle lettere? Per correre dietro una piccola gloria, senza potere mai raggiungere il fine a cui tende la mia ambizione? Quale influsso potrei io esercitare in vantaggio dei miei fratelli infelici, stranieri e proscritti, in un paese in cui l'egoismo occupa ogni grado sociale? Che cosa fanno a Parigi tutti questi esuli che la sventura qui gettò, lungi dalla terra natale? Quelli stessi che sarebbero stati grandi in patria, qui vivono oscuri nel turbine della vita parigina. Quanto di più nobile e illustre conteneva la mia patria, ha dovuto fuggire. Tutti quelli che io ho conosciuto personalmente mi hanno rattristato sino al fondo del cuore con lo spettacolo del loro grande valore, rimasto sterile ed impotente. No, no! Non è fuggendo la patria, perchè essa è infelice, che si può raggiungere una meta gloriosa! Sventura a chi abbandona con disprezzo la terra che lo vide nascere, a chi rinnega i suoi fratelli come indegni di lui! Quanto a me, io sono deciso. Io non dividerò mai la mia sorte da quella del Piemonte. Sventurata o felice, la mia patria avrà tutta la mia vita».[37]
Oh, non è egli poeta, imaginazione non ha! «Io non ne possiedo alcun germe. In tutta la mia vita io non sono potuto arrivare ad inventare la più piccola favola da far stare attento un bambino»;[38] ma questi che qui riportammo sono «raggi» della più sublime «poesia» che «baleni» nell'animo dell'uomo.
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Veramente il conte Enrico di Mombelles, legato austriaco in Torino, non era di questa opinione. Il giovane Cavour aveva dato, anzi, molti dispiaceri a suo padre. Perchè è da sapere che prima di viaggiare all'estero, era intenzione del giovane di visitare la Lombardia; ma il detto conte Enrico di Mombelles, avendo saputo di queste intenzioni, si era affrettato a scolpire questa succosa e onorevole biografia: «Questo