Il 1859 da Plombières a Villafranca. Alfredo Panzini

Il 1859 da Plombières a Villafranca - Alfredo Panzini


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digiuno di lettere non lo direi. Certo abbondano i solecismi e, spiace dirlo, il suo pensiero si muove più franco ed agile nella forma francese che in quella italiana; però anche in italiano scrive con una qualità notevole, ed è questa: se noi prendiamo le forbici per isfrondare, tagliare, non ci riesce: si rompono le forbici, ma la sua prosa resiste. Non gli piacciono le espressioni antiquate, i giri lunghi di parole. Mi ha tutta l'aria di sottoscrivere al paradosso del Carducci: chi potendo dire una cosa in dieci parole, la dice in venti, lo credo uomo capace di male azioni.

      Una volta un insigne letterato gli ripulì una relazione e la infiorò con dei «vuoi» e degli «imperocchè»; ma lui dichiara che la sua relazione «gli era stata guastata», e che «un'altra volta userà del diritto di dire degli spropositi».[13]

      Ma non chiameremo spropositi questi avvertimenti sull'arte dello scrivere, contenuti nella seguente lettera del 22 maggio '59, dopo la vittoria di Montebello: «Desidererei che il nostro Stato Maggiore affidasse a penna più abile la cura di raccontare i fatti. L'ultimo bollettino sul combattimento di Montebello era redatto in stile da Fischietto. I soldati che si battono oltre il bisogno, la lotta che è fermata dal giorno, sono cose da far ridere i più benevoli. Ho pensato di non pubblicarlo tale e quale. Avrei fatto altrettanto della lettera a Sonnaz, se fossi stato a Torino quando ci fu mandata dal campo. Non so chi la scrisse, ma in verità è ridicolo parlare dei bracci che incanutiscono e del senno che non incanutisce. Ma sopporteremo con rassegnazione della cattiva prosa, se continuate a fare, come in questi giorni, fatti egregi».[14]

      Come oratore certo non possedeva tutte quelle doti che Cicerone enumera nel «De Oratore»; nè era eloquente al punto da piacere ad una moltitudine poco pensante e molto desiderante. A questo fine gli difettò specialmente la Retorica, divinità indigete, sopravissuta in buona salute a tanto tramonto e infermità di numi; ma la sua parola corre incisiva, caustica, ignuda; batte l'ala talvolta per forza di sdegno o di ponderata passione.

      «Di ogni filosofia digiuno»: ma possedeva la maggior filosofia; conoscere uomini e tempi. Come indovinò bene, per esempio, Nino Bixio. «Vi raccomando in ispecie Bixio, che è il miglior generale di Garibaldi».[15] E Pio IX? «I furori del Papa, le sue filippiche non mi sgomentano punto, anzi crescono in me la speranza di raggiungere il desiderato scopo. Quanto più S.S. sarà veemente, tanto più mi mostrerò calmo e moderato negli atti e nelle parole».[16] E ancora: «Le scene violenti del Papa non mi spaventano. Nella sua qualità di uomo nervoso, tutte le crisi sono seguite da un periodo di calma, in cui è più facile fargli capire la ragione».[17]

      E le moltitudini? «Evitino il giorno dei morti!»[18] raccomanda ripetutamente ai regii commissari; cioè evitino che il giorno del Plebiscito coincida con quello dei morti. Triste presagio!

      Nè gli mancavano qualità profetiche, che è il massimo della filosofia, anzi della poesia. Se ne potrebbero portare parecchi documenti. Eccone alcuni: Giovanissimo, vivendo a Parigi la gran vita mondana, confida al De La Rive queste sue impressioni: «Credete voi alla possibilità d'un potere aristocratico qualsiasi? La nobiltà crolla da tutte le parti. I principi come i popoli tendono a distruggerla. Il patriziato non ha più posto nell'odierna organizzazione sociale. Che cosa rimane per combattere contro i flutti della democrazia? Niente di solido, niente di forte, niente di durevole. È un bene o un male? Io non ne so nulla; ma a mio credere è l'inevitabile nell'umanità. Prepariamoci o, almeno, prepariamovi i nostri discendenti, chè ciò li riguarda più di noi».[19] Ancora: «La salvezza d'Italia sta nel Parlamento. Se vi è in esso una maggioranza onesta, liberale, nemica delle sette, non temo nulla. Ma se la maggioranza è settaria o soltanto debole, non saprei prevedere le calamità che potrebbero sovrastarci».[20] Ancora: «Solo una soluzione radicale può ricondurre la pace fra la Chiesa e lo Stato».[21] Ancora: «Finchè l'Austria rimarrà una grande potenza, noi non potremo essere tranquilli».[22]

      Ed anche sul punto di morte questo spirito profetico non l'abbandonò, chè, come tramandando con il passar della vita la lampada dell'anima sapiente, dice al suo Re: «E i Napoletani? Così intelligenti! Ve ne sono che hanno molto ingegno, ma ve ne sono altresì che sono molto corrotti. Questi bisogna lavarli, Sire, sì, sì; si lavi si lavi».[23]

      Si potrebbe, volendo, trovare a che dire anche sul nome, giacchè quel Benso, che pare un nordico Benz, e quel Cavour hanno un sapore esotico: ma certo Camillo è un bel nome, pieno d'augurio italico.

      *

      Altre belle virtù egli aveva, proprio di quelle che in teoria noi ammiriamo tanto: la gratitudine, per esempio. Quando negli alti consigli dello Stato, dopo il '60, si trattava di liquidare l'esercito garibaldino, egli avverte i generali Cialdini e Fanti, «che si leverebbe un grido di reprobazione se si conservassero i gradi agli ufficiali borbonici che fuggirono obbrobriosamente e si mandassero a casa i garibaldini che li hanno vinti. Su questo punto non transigerei. Anzichè assumere la responsabilità d'un atto di nera ingratitudine, vado a seppellirmi a Leri. Disprezzo talmente gli ingrati che non sento ira per loro e perdono le loro ingiurie. Ma per Dio! non potrei sopportare la taccia meritata di avere sconosciuto servigi come quello della conquista di un regno».[24]

      Altra virtù il non odiare. Fra lui e Garibaldi, dopo la cessione di Nizza e l'impresa dei Mille, non c'era buon sangue e non corsero belle parole; eppure quando l'Austria minacciò ancora la guerra, scrive: «Dite al generale Garibaldi da parte mia che se noi siamo assaliti, io l'invito in nome d'Italia a imbarcarsi sull'istante e a venire a combattere sul Mincio».[25] Oh, non odiava, come è documento quest'altra lettera: «Duolmi che Garibaldi se l'abbia avuto a male, giacchè desidero di cuore che non si venga a rottura con lui. Esso fu meco ingiusto, potrei dire ingrato.... Ciò nullameno quello che ho detto al Parlamento lo ripeto ora: avrei vivo desiderio di stringergli la mano e stendere un velo sul passato....»[26] E nei vaneggiamenti dell'agonia ripete al suo Re: «Garibaldi è un galantuomo: io non gli voglio alcun male».

      Anche come capo di amministrazioni ha criteri molto pregevoli, benchè severi. Una volta una dama, e inglese per giunta, gli raccomanda un nobile giovane, ex-ufficiale della marina borbonica, che aveva dato le sue dimissioni durante la guerra, ed ora pretendeva di essere accolto con avanzamento di grado nella marina italiana. Cavour le spiega: «Sapete perchè Napoli è caduta sì basso? Si è perchè le leggi, i regolamenti non si eseguivano quando si trattava di un signore o di un protetto del Re, dei principi, dei loro confessori od aderenti. Sapete come Napoli risorgerà? Coll'applicare le leggi severamente, duramente, ma giustamente. Così ho fatto nella marina; così farò nell'avvenire; e vi fo sicura che fra un anno gli equipaggi napoletani saranno disciplinati come gli antichi equipaggi genovesi. Ma per ottenere questo scopo, credete alla mia vecchia esperienza, bisogna essere inesorabili».[27] La dama replica, come è facile supporre, ed il Cavour le risponde fra le altre cose: «Credo essere il mio dovere di mostrarmi severo, e di lasciare ai miei subordinati la parte della mansuetudine. Spero così di mutare lo spirito che informa l'amministrazione napoletana; spirito fatale che corrompeva gli uomini più distinti e le migliori istituzioni». La severità ai capi responsabili e la mansuetudine ai subordinati? Così non avvenne al tempo che morì di crepacuore G. Mercuri, più noto col nomignolo di Battirelli.

      Queste virtù di giustizia fanno molto onore al Cavour, tanto più che egli sa che «in politica non si possono sempre prendere come punto di partenza i principi della morale».[28] Il che non include peraltro che si debbano prendere quelli opposti dell'immoralità.

      Nella sua qualità di diplomatico, egli era uomo prudente: non si creda peraltro che il grado della sua prudenza fosse eccessivo. Uomo pacifico, come ci dice il suo ritratto: e poichè era di temperamento allegro, diremo, un allegro uomo di pace: non però disposto a farsi ammazzare; «disposto» di preferenza «a provare di ammazzare gli altri anzichè lasciarsi ammazzare»;[29] e questa filosofia cercò di infondere anche negli uomini del suo partito, dimostrando che vi sono momenti «in cui l'audacia è la vera prudenza, e la temerità è più savia della ritenutezza». Con tale disposizione ardita dell'animo non gli facevano difetto quei provvedimenti da cui spesso rifugge la molto umanitaria indole nostra. «Tenete» — è un dispaccio del 22 ottobre 1860 al conte Carlo di Persano, quando l'Austria minacciava di assalire ancora — «pronta la squadra per partire alla volta dell'Adriatico: fate leva forzata di marinai a Napoli. Se il codice napoletano


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