Il 1859 da Plombières a Villafranca. Alfredo Panzini

Il 1859 da Plombières a Villafranca - Alfredo Panzini


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      Le gravezze dei balzelli e le brutalità dei soldati erano giunte al punto che quelle non si potevano più nascondere sotto il cerimonioso sorriso, nè queste confortare con la fatalistica e pulita espressione della «militare licenza». Si rivolsero quindi al legittimo signore, che era il Papa, anzi al signore del mondo. Era presumibile che egli non potesse imporre un poco di rispetto per le sue proprietà, almeno a questi re e imperatori cattolici e cristianissimi? Ma il Papa rispose dolentissimo che quei re cattolici ubbidivano più volentieri alle armi e alla voce del cannone che alla sua, la quale si trovava senza il sussidio delle armi e dei denari. Poteva ben compatire, ma nulla fare in aiuto. Era proprio il caso davvero di aver fatto tante feste, tanti tridui, tanti ringraziamenti all'Altissimo quando quelle città passarono sotto il dominio del Papa!

      Questa umiliante consuetudine di fare buon viso e festa, volta a volta, ad eserciti nemici ci rimase, è doloroso il dirlo, nel sangue sino a tempi a noi vicini. Oh, quante volte «fuori i lumi!» per i Francesi, quante altre «fuori i lumi!» per gli Austriaci! E il gonfaloniere coi signori della città farsi incontro sino fuor delle porte, col sorriso sulle labbra e l'angoscia nel cuore, a corrucciati generali cavalcanti, e porgere le chiavi della città su cuscini di velluto assicurando che i buoni cittadini avrebbero sfarzosamente illuminate le vie, fatto scelti concerti, le dame ballato, e il Comune pagato! Sono sessant'anni appena che queste miserabili cose più non avvengono: il popolo, ohimè!, non le ricorda nemmeno: ma ci si accusa e noi ci accusiamo tuttora di mancare di educazione politica, ma con tanto alternarsi a brevissima distanza di tempo di grida coatte: Viva Napoleone! viva Francesco I nostro signore, viva il Papa, viva la Rivoluzione, viva la Libertà, viva la Forca, viva Murat, viva l'Austria, come era possibile imprimere ad un popolo l'educazione politica? Mi sta a mente un minuscolo fatto d'arme, ricordato pur ne' manuali scolastici. Nel marzo 1831, il dì venticinque, un pugno di animosi presso le Celle a un miglio da Rimini, su la via Emilia, fece fronte all'esercito tedesco. Ma le prime avanguardie austriache non chiesero: dove è il nemico? chiesero: dove sono i briganti?

      I briganti! Oh, lo dicevano in buona fede e molte timorose coscienze da noi vi credevano. La storia di questi briganti che affrancarono un popolo e poi furono venerati come martiri ed eroi, è gran parte della nostra storia recente!

      Ma quale nenia malefica era stata cantata? quale veleno di sonno era stato propinato a questo popolo già così indomito, insofferente, feroce, fecondo? Fin la fecondità materiale della generazione parve avere sosta! Per qual delitto d'audacia fu l'Italia punita? Torquato Tasso domanda ai gesuiti un confessore che lo assolva di grande peccato. Ultimo grande della Rinascita, in che hai mai tu peccato? Quella grande rivoluzione del pensiero, la Rinascita, fu dunque così mortale peccato? Così grande peccato che solo le fiamme che arsero le carni di Giordano Bruno parvero pena condegna? Sommessamente, umilmente davanti al tribunale del Santo Ufficio, in Roma, Galileo osò ripetere: Eppur si muove! Non fu il rogo che annienta, fu un'altra forma di annientamento: la segregazione da ogni essere umano del mirabile vegliardo affinchè quella voce non fosse più udita: ma essa volò e si diffuse come il santo spiro di Cristo fuor dell'avello![1]

      *

      Quando discesero i Francesi in Italia col Bonaparte, e ciò fu nel 1796, parve, come dopo lunga afosa stagione, il sorgere al confine del cielo di un temporale nero come la pece. Fiamme e lampi balenavano dietro e ne solcavano i margini. Pochi istanti ancora ed ecco si leverà il vento. Chi ha le messi all'aperto s'affretta a nasconderle: porte, finestre siano sbarrate. Hanno ucciso il loro re, hanno abolito Iddio! Che mai sarà di noi? Chi può, come don Abbondio all'arrivare dei lanzichenecchi, prende la via dei monti. Nascondete sotterra i tesori, le reliquie. Le vergini, le caste monache siano pur esse nascoste; e si attende immobili, col cuore che palpita. La nube nera è squarciata da fulgori d'armi e cannoni; eccoli, eccoli, sono arrivati, hanno tutto spazzato, tutto vinto. Il re del Piemonte come una festuca, quattro antichi eserciti del sacro romano impero dell'Austria sono stati da quelle furie francesi spezzati come verghe di un inutile fascio: i signori di Milano su cuscino prezioso hanno, tremando, offerto al giovanetto guerriero le chiavi della città. Attila s'arrestò davanti a papa Leone: non s'arresterà il Bonaparte: un grido lo precede, l'antico, immutabile grido del diritto della forza: «O soldati, avete riportato sei vittorie, avete ammazzato o ferito più di dieci mila persone; avete vinto battaglie senza cannoni, passati fiumi senza ponti, marciato senza scarpe, alloggiato allo scoperto, etc.». Sostò appena al petrone dove Cesare arringò le legioni dopo il Rubicone e mosse contro Pio VI. Solo gli immobili santi nelle arche secolari possono dare aiuto e San Marco a Venezia e Verona, e San Gennaro a Napoli, e Santa Maria a Genova; Santa Maria, dal cielo lontano, è invocata dal popolo. E il popolo è pronto a combattere per i suoi santi e per i suoi signori. Ma i signori di Venezia non han membra che per tremare, non han voce che per proclamare un atto di viltà così grande che il mercato di Campoformio può sembrare quasi espiazione.

      Il re di Napoli, Ferdinando IV, che s'era avanzato sino a Roma, ebbe tronca dal terrore una vana parola di iattanza: è precipitato a Napoli, di lì salperà coi tesori, con le ree femmine, Carolina, Emma Leona, per Sicilia. Più lontano fuggire non può.

      Orribili a vedersi, in istrane fogge, laceri, sordidi di polvere e di sangue; ma tante terre hanno corse, tanto sangue hanno sparso!

      Voi non li capite? Ma se rulla il tamburo e canta la «Marsigliese», voi li capite. Voi tremate? E che? «Anime timide; e voi, bocche perfide, cessate di spargere il vostro veleno. Noi siamo qui per proteggere l'innocenza, la probità, la virtù!»

      I cuori cessarono di battere. Stupri, uccisioni, rapine, non ne fecero essi di più che gli antichi imperiali e cattolici eserciti. I Lazzari, feroci, domandarono onore per San Gennaro, e fu concessa al santo una guardia d'onore. Del resto, c'erano i nuovi santi e i nuovi inni: «Liberté, égalité, fraternité», l'albero della «Libertà», il vessillo tricolore, «Allons enfants de la patrie», «Ça ira». Rullava il tamburo e si capiva; torme poi di Italiani, scomunicati e indiavolati anch'essi, con nomi nuovi alla francese, giacobini e patriotti, seguivano gli eserciti della Rivoluzione e facevano da interpreti. In fondo si trattava di ballare, ballare a tondo la «Carmagnola» e le donne e i giovani — ben lo sapete — imparano presto le nuove danze e si vestono volentieri delle nuove fogge. Si trattava anche di veder fuggire atterriti gli antichi padroni, i preti ed i signori nobili: spettacolo crudele: ma questa soddisfazione accade così di rado che quando accade ci prende sempre gusto il popolo.

      Questo temporale durò tre anni (1796-1799), e dove prima sorgevano ducati, granducati, regni, sorsero tante piccole republiche, generate convulsamente dalla grande madre: la Francia.

      Se non che nell'anno 1799, al tempo che Napoleone inseguiva in Oriente non so qual suo meraviglioso sogno dietro le orme di Alessandro, ecco la tenace e formidabile Austria, collegata alla Russia, ridurre in breve tutta Italia alla fortuna di prima. Fuori i lumi, adunque: giù l'Albero della libertà. Si intuoni dai re e dai popoli il «Te Deum», si esponga il Sacramento. Bonaparte è tornato! Ma Bonaparte è vinto! L'infame Bonaparte è vinto, il vecchio generale austriaco Melas, sempre nei fatali campi d'Italia, lo ha vinto. Messi a spron battuto ne diffondono la gran nuova. A Livorno è giunta la regina Carolina moglie del re di Napoli, sorella dell'imperatore d'Austria, sorella della decapitata Maria Antonietta. Ella si affretta a Vienna a domandare più vasto regno: il sangue sparso dei patriotti napoletani non ha saziato la sua vendetta: altro sangue e più vasto regno domanda. Ma ecco nella notte ella è desta: un nuovo messo è giunto. Ella, nell'aprire il foglio diceva: leggiamo la fine del presuntuoso esercito di Buonaparte. Ma quando lesse la disfatta del Melas, instupidì, rilesse come incredula il foglio, le mancò la luce e si appoggiò morente alla donna che l'aveva desta.[2]

      Oh, è ancora la dolce primavera, l'astro di Napoleone non tramonta, anzi sale con l'estate al suo grande meriggio; tredici anni durerà quell'estate purpureo, spentosi contro le brume e il gelo del Nord. La dolce terra di Francia ne ha a gioire come ai tempi d'Orlando. La vendetta dei re maturerà nell'odio ancora tredici anni.

      Napoleone dopo Marengo fu ancora arbitro del mondo e d'Italia. Egli con la spada la tagliò come un bel manto antico; col pezzo più unito e piano fece prima una Republica e poi un Regno; e di stoffa regale tanta ne avanzò, che ne diede alla Francia, ne vestì i parenti, le sorelle orgogliose. E tu, madre mia, nulla vuoi? Nulla volle Letizia. Lunga


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