Il 1859 da Plombières a Villafranca. Alfredo Panzini
accompagnano l'alta onorificenza al Metternich, repressore dei moti del '31: «Per aver tanto contribuito a mantenere l'indipendenza negli Stati italiani».
Appare l'Austria nel suo atteggiamento vero e fatale; ed anche dai sensi più ottusi fu sentita quell'atmosfera «di taciturna oppressione quale mai non erasi, nè fu più provata, tanto maggiore quanto non ricreata da verun lampo di speranza». Queste parole si tengano a mente perchè non sono di Giuseppe Mazzini: sono di Cesare Cantù!
Allora quel fiero e fanatico ministro della reazione dell'Austria, il Metternich, torcendo a peggiore e maligno senso tutta la storia della patria nostra, dirà: «Ma che nazione! l'Italia non è nazione. È espressione geografica!» E se non basta questo oltraggio dall'oriente, dall'occidente verrà altro oltraggio: «L'Italia è la terra dei morti».
Venitela a vedere come è poetica questa terra dei morti!... Briganti fra le ruine e monaci molti fra le tombe. Al sole qualche Graziella canta.... E gli inglesi taciturni e strani infatti vengono a contemplare e pregano che tale bello spettacolo non sia mai rimosso: ma un inglese, appunto, gettando una sua romantica face fra quelle cose di morte, gridò: Si agitano dei vivi in quel sepolcreto! Giorgio Byron. Ma vediamo, vediamo ciò più minutamente.
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Alfredo De Musset, nel principio delle sue «Confessioni di un figlio del secolo», descrive con impareggiabile pennello il senso di stanchezza e di smarrimento dei Francesi dopo quella disperata corsa dietro alla gloria e alla guerra. Si guardarono e si videro brutti di squallore e di sangue. E allora quei guerrieri ricordarono che oltre a Napoleone e alla gloria, avevano le culle e le tombe. Tale senso di stanchezza invase anche l'Italia, come quella nazione che più da presso aveva seguito le sorti francesi. Non c'è più sangue nelle vene da offrire a Napoleone? Non c'è più sangue, e molti videro in Blücher e in Wellington i nuovi Tesei che avevano liberato il mondo dal Minotauro, divoratore di giovani vite.
Se non che la Francia fu vinta soltanto, e l'Italia fu conquistata e trattata secondo il diritto della conquista.
Le grandi potenze d'Europa, coalizzate prima contro Napoleone, poi, dopo che egli fu vinto, strette in un'alleanza che fu detta Santa, imposero per re alla Francia, conforme al principio del «legittimismo», escogitato in quelle circostanze, Luigi XVIII, fratello di Luigi XVI, quel re che, a testimonianza di Samson, il carnefice, seppe morire da Re dopo essere vissuto poco bene, almeno come Re.
L'Italia, invece, fu tutta preda dell'Austria. Blandamente da prima e quasi amorevolmente, sì che molti si mossero incontro a lei. Ella ci ricordò il volto degli antichi amati sovrani e promise che ce li avrebbe ricondotti. A chi aveva imparato dalla Rivoluzione il principio di nazionalità richiamò astutamente, come dicemmo, le nostre antiche glorie e libertà comunali. A chi amava la pace, ricordò il lungo e pacifico governo di Maria Teresa. A chi odiava le novità democratiche, fece sapere che i Re grandi e gli Imperatori, stretti in una alleanza Santa, avrebbero rimesse le cose come prima. Seppe, insomma, abilmente trarre profitto di quel complesso di passioni politiche che si scatenano in ogni nazione dopo un grande sfacelo, ma che in Italia, per effetto dell'indole nostra e delle antiche dissensioni regionali, hanno maggior rigurgito e più confusa violenza. E se il Metternich non lesse il Machiavelli, dove è fatta la psicologia dei Fiorentini, ai quali per naturale disposizione «ogni stato rincresce, ed ogni accidente li divide», certo questa psicologia comprese e mirabilmente sfruttò.
Verso coloro poi che odiavano Napoleone, l'Austria aveva le maggiori benemerenze. Voi direte Lipsia, la tragica battaglia di tre giorni, voi direte Waterloo, voi direte gli eserciti imperiali risorgenti sempre dopo la sconfitta.
V'è di più: l'imperatore d'Austria gli ha infitto nel mezzo del petto una spada avvelenata: bene ha il petto di bronzo colui che vide impassibile i campi coperti dei morti: ma a tanto strazio non resisterà. La moglie sua, figlia dell'imperatore austriaco, Maria Luisa, sorride dall'incosciente volto di bambola, in Parma, odorosa di viole, ai cavalieri austriaci. Ma un più indomabile affetto aveva quel cuore di bronzo. Lo so, la storia ufficiale non ha tempo di registrare gli affetti privati dei protagonisti dei grandi drammi della vita. Ma questa ommissione è erronea. Un indomabile affetto: il figliuolo; per lui solo oramai il Minotauro folle conquistava il mondo. Al nepote dell'avvocato Carlo Bonaparte e dell'umile Letizia Ramolino egli aveva imposto il titolo trionfale di re di Roma. Di tutti i grevi emblemi dell'impero, lo aveva gravato, il bambinello! Mille canori poeti cantarono il suo nascimento. Ma noi non ricorderemo nè quei canti nè quei poeti. Ma ricorderemo che era là, su le rive della Moscova il giorno in cui mezzo milione d'uomini si preparavano a sgozzare altri uomini che un messo venne e che recava il ritratto del pargoletto sorreggente nella manina i mostruosi pesi del mondo e dello scettro.
Ricorderemo che quando Napoleone fu deposto, domandò al suocero la moglie e il figlio. E l'imperatore d'Austria negò. Ricorderemo che nel marzo del 1815, quando Napoleone riprese per cento giorni l'impero, domandò ancora la moglie ed il figlio e l'imperatore d'Austria negò. Al giovanetto fu mutato abito, linguaggio, nome. Il bel castello di Schönbrunn fu la imperiale fiorita Bastiglia ove languì, morì — nuova maschera di ferro — il figlio di Napoleone.
Dopo ciò che cosa è il «Bellerofonte» che naviga verso l'isola di Sant'Elena? che cosa è Hudson Lowe, il carceriere feroce?
Dunque bene aveva titoli di benemerenza Francesco I imperatore d'Austria per coloro che in Italia odiavano Napoleone. Ma altra cosa conviene dire per ispiegare come molti si fecero incontro all'Austria, tanto che aristocrazia di sentimenti fu detto il parteggiare per l'Austria, e in Milano quell'aristocrazia provocò un tumulto per affrettare l'ultimo crollo del dominio francese. Io voglio dire il giuoco degli interessi, la molla occulta che governa tanta parte dei fatti umani: la classe dei nobili sperò nel ritorno dell'Austria il ritorno degli antichi privilegi e nei soldati austriaci videro soltanto i buoni servi armati, che li avrebbero difesi dalla Rivoluzione.
Ma più sottile cosa conviene dire, cosa confessata a mezzo, occultata spesso, determinabile con fatica e che tuttavia è la ragione per cui i fatti si svolgono in un certo modo costante.
Molte persone, all'infuori di ogni interesse ed opinione, provano un invincibile senso di repugnanza contro la mediocrità e la viltà invidiose, procaccianti, trionfanti: queste numerose e maligne forze umane si sviluppano tanto in regime aristocratico come in regime democratico e per distruggerle io dubito che convenga distruggere l'umana natura. Ma certo in clima democratico hanno una fioritura più appariscente o se vogliamo dire in altro modo, possiamo dire che il regime aristocratico vietando molte cose, vieta nelle piazze l'ingombro e il tumulto dei ciarlatani e dei cavadenti e non permette le grida di viva o di morte che il publico alterna. Il regime aristocratico, inoltre, essendo più stabile, non permette così facilmente che sul corpo della povera volpe, caduta nel fosso, e succhiata dalle mosche canine, queste, gonfie di sangue, siano scacciate per dare posto ad altre mosche di altrettanto più avide quanto meno sono pasciute. Ora molte nature sensibili dovendo scegliere tra due mali, dànno la preferenza a quello che è meno nauseabondo.
Chi non ricorda, ad esempio, le terribili invettive di Ugo Foscolo nella «Ypercalypseos» contro la demagogia del tempo napoleonico, e le atroci accuse contro Milano, «Babylon minima», che pur fioriva di uomini insigni, compreso lui, il Foscolo, magnifico figlio di quella democrazia?
Ma la verità è questa: quei grandi sono rimasti e la turba agitata e agitante è scomparsa, come allorchè la nobile pianta è riuscita a crescere a dispetto delle male erbe che rigogliose attorno le succhiano l'umore, più quelle non teme, anzi intorno le uccide.
Certo che per allora l'Austria si presentava a molti come la giustiziera contro l'invidia demagogica, contro «quei prepotentoni di Frances», come il buon governo che riconduceva il quieto vivere e il lauto «pacchiare».
Giovannin Bongee col suo fratello Marchionn di gamb avert, avevano di che querelarsi: donna Fabia Fabron De-Fabrian poteva con amabile terrore, ma sicura oramai, parlare nel suo salotto al frate confessore delle «fellonnii» del passato tempo francese, e dei «sovvertiment de troni e de costumm».
Blandamente e con mano guantata si insinuò l'Austria in Italia: tanto che il suo ritorno venne cantato da Vincenzo Monti come il ritorno di Astrea. Ma pare che l'Austria gradisse poco, non dirò le lodi, ma il lodatore,