Il 1859 da Plombières a Villafranca. Alfredo Panzini

Il 1859 da Plombières a Villafranca - Alfredo Panzini


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il primo a gemere su la condotta e sui principi del suo figlio cadetto. Questo giovane, fornito di molto talento e facilità di ingegno, era entrato nel genio militare. Ma le sue idee e le sue relazioni con altri giovani mal pensanti, indussero il Re a confinarlo nel forte di Bard.... Io lo considero come uomo molto pericoloso, e tutti gli sforzi per ricondurlo sulla buona strada sono riusciti infruttuosi. Merita, dunque, una sorveglianza continua».

      Per effetto di questa raccomandazione segreta («segni funesti», come al buon Bellerofonte), il conte Torresani, direttore della polizia di Milano, dirigeva all'Imperiale Regio Commissario di Buffalora il seguente avviso, in data 15 maggio 1833: «Sta per mettersi in viaggio il giovine cavaliere piemontese Camillo Cavour, già uffiziale del genio, e malgrado la sua gioventù, già provetto nella corruzione de' suoi principii politici. Mi affretto a darle, signor commissario, questa notizia, coll'invito di non ammetterlo, qualora si presentasse su codesto confine, se non sopra passaporto in perfettissima regola, ed in questo caso soltanto previa la più rigorosa visita sulla persona e sugli effetti, avendo io notizia che egli possa essere latore di pericoloso carteggio».

      Il carteggio pericoloso era, tutt'al più, nella testa del giovane cavaliere; e all'Austria più che il carteggio segreto dei patriotti, fu esiziale questo carteggio dei suoi ministri il quale, se non ci richiamasse lugubri imagini di corpi e di anime straziate, potrebbe anche ricordare le pedantesche corrispondenze dei commissari spagnuoli dietro a quel gran delinquente che fu Renzo Tramaglino.

      Ma, pensatoci meglio, il Torresani, con circolare 7 giugno 1833, n. 3476, vietava al Cavour l'accesso in Lombardia; e soltanto tre anni dopo, di primavera, quel pericoloso cavaliere, previe le consuete pratiche ecc., ottenne, per una sol volta, il passaggio al confine di Buffalora.

      C'è un ponte al confine di Buffalora, e lo seppero gli Austriaci a Magenta: e poichè queste circolari sono tutte del tempo di primavera, ricordiamo come nella primavera del '59 il Cavour costringesse con più efficaci mezzi l'Imperiale Regio Commissario a lasciargli libero il passaggio per quella remota Lombardia, dove era la Chimera orrenda, che il buon Bellerofonte uccise.

      *

      Già, prima era stato ufficiale: luogotenente nel corpo reale del genio militare; e la sua nomina è del settembre 1826. A sedici anni; carriera di cadetto, in virtù del privilegio di essere stato prima paggio di corte! Ventimiglia, Genova! Splendide guarnigioni e vita ben gaia, specialmente con un temperamento come la madre fin da piccino notava: «luron, fort, tapageur, et toujours en train de s'amuser». Oh, bei sogni della giovanezza, e fra quei sogni, questi ben singolari per un ufficiale! Una mattina si era svegliato, e gli sembrava di essere ministro del Regno d'Italia; un'altra mattina di emancipare l'Italia dai barbari![39]

      «Vi dispiacque di aver lasciato il servizio di paggetto di corte?»

      «Mi è sembrato di essermi levata la livrea».

      «E andavate vestiti?...»

      «Come volete che andassimo vestiti? Come dei lacchè. Ne arrossisco ancora dalla vergogna!»[40]

       Fu confinato nel forte di Bard, in val d'Aosta: una specie di relegazione. Quest'ordine del nuovo sovrano, Carlo Alberto, è del 27 aprile 1831, e fu motivato, pare, da quelle «imprudenti» parole.

      Oh, giornate di luglio 1830; oh, grande aurora di ribellione, che rosseggia in Francia, per cui di tanto palpito ti innebbriasti, anima incredula di Arrigo Heine; oh, congiure, speranze, nella patria nostra; intervento armato, quindi, dell'Austria; e poi esilii, carceri, forche; oh, come doveva essere triste la guarnigione nel solitario forte di Bard![41] Nel forte di Bard, «in un paese privo di risorse», egli era «ridotto, per ammazzare il tempo, a giocare a tarocchi con gli appaltatori».[42]

      Noi ricordiamo nell'antica storia d'Italia un altro melanconico giocatore, un uomo nato alla meravigliosa azione e condannato dalla stolta malvagità dei potenti alla tortura dell'ozio: Niccolò Machiavelli, che gioca «a cricca, a tric-trac con un beccaio, un mugnaio e due fornaciai»; ma venuta la sera, si «spoglia di quella veste cotidiana, piena di fango e di loto»; si mette «panni reali e curiali» e ragiona coi grandi morti delle antiche età, poichè dormono i vivi.

       Il Cavour dopo otto mesi di quella specie di esiglio, sospende anche lui «quella veste cotidiana», non «piena di fango e di loto», ma poco adatta alla libertà dei movimenti, e avanza verso i vivi, che hanno cominciato a svegliarsi.[43]

      *

      Il Cavour, come tutti sanno, è ritenuto il maggior rappresentante del partito così detto moderato. Ma sul senso della parola sarà bene intenderci. Che se per moderato si intendesse o mal larvata immoderazione retriva, ovvero moderata idealità, moderato sdegno, moderati ardimenti, si commetterebbe un grave errore di giudizio. Il miluogo o «juste-milieu» a cui giunse dopo il nobile fermento della prima adolescenza, non ha nulla a che fare colla solita via di mezzo, calcata da quei molti prudenti «che s'adombrano delle virtù come dei vizi»;[44] ma è l'equilibrio tra il desiderabile e il fattibile. La sua mente pratica non può fermarsi che su le cose possibili.

      Può, vuole, anzi ha bisogno di smuovere uomini e cose, ma prescindere dalla prosa dei fatti come sono, per vivere nella poesia dei fatti come dovrebbero — forse — essere, non è del suo temperamento. Egli non è adatto per lanciare all'avvenire di quegli immensi valori fiduciari che tanto piacciono alle moltitudini, e perciò il suo pensiero non potè mai essere popolare; anzi ogni intemperanza demagogica, che muova da un postulato dottrinario, eccita in lui come una caustica secrezione di ironia. Di questo suo spirito liberale così informato a moderazione ci piace oltre ai molti documenti che la necessità del racconto ci obbligherà a produrre, riferire questi due i quali si possono ritenere veridici, perchè non sono tolti da concioni politiche ma da lettere intime. «Io reputo che non sarà l'ultimo titolo di gloria per l'Italia di aver saputo costituirsi a nazione senza sacrificare la libertà all'indipendenza, senza passare per le mani di un Cromwell; ma svincolandosi dall'assolutismo monarchico senza cadere nel dispotismo rivoluzionario».[45]

      Il secondo passo è del 7 gennaio 1860, cinque mesi dopo Villafranca ed ha speciale valore perchè ci rivela il suo intimo pensiero per ciò che riguarda l'Italia e la politica di Napoleone III. Dico intimo, perchè diretta la lettera al De La Rive e confidata con questo avvertimento: «Io vi scrivo a cuore aperto, e vi tengo un linguaggio che sta male in bocca di un diplomatico. Ma con voi io non voglio essere che un vecchio amico, sicuro che voi non mi farete commettere delle imprudenze». Aveva in quei giorni Napoleone III accettate le dimissioni del ministro degli esteri, conte Valewski, di cui avremo occasione di fare menzione sovente, e chiamato in sua vece Thouvenel, «ennemi des prêtres». Dice dunque: «È evidente ai miei occhi che l'Imperatore s'è deciso dopo lunghe esitazioni a ritornare francamente all'alleanza inglese, per la quale egli ha avuto in tutta la sua vita il pensiero fisso. Quanto all'interno egli ha capito che il partito clericale lo trascinerebbe verso la china fatale che ha perduto Carlo X. Egli ha subodorato una reazione violenta contro il partito ultramontano, un ritorno appassionato verso i principi del '89 e l'ha rotta con Roma. A mio avviso la decisione dell'Imperatore non è dubbia. Il giorno in cui ha fatto all'arcivescovo di Bordeaux la sua famosa risposta, di cui l'importanza non era minore ai miei occhi che quella dell'opuscolo «Il Papa ed il Congresso», io ho esclamato fra me: Io perdono all'Imperatore la pace di Villafranca: egli sta con ciò per dare all'Italia un aiuto ben più grande che con la vittoria di Solferino. L'alleanza inglese e la rottura con Roma devono necessariamente dare al governo dell'Imperatore degli andamenti più liberali, o almeno più larghi e più popolari».

      Gli occhi del Cavour si chiusero a tempo. Egli morendo potrà dire: «L'Imperatore è molto buono con noi». Egli non udì la fucilata di Aspromonte e di Mentana; non lesse le lunghe, diuturne, affannose o pietose pratiche dei ministri italiani a lui successi.[46] Non vide (e sarebbe avvenuto, lui vivo?) l'Imperatore, tratto contro l'opera propria. I suoi occhi si erano chiusi. Ma che egli avesse visto la meta a cui tendeva Luigi Bonaparte, fra impedimenti immensi, lo dice la storia, quella che è più sigillata; e delle forze avverse che trascinavano l'Imperatore anche questa semplice narrazione offrirà prove non poche.

      «Quanto all'Italia» — prosegue il Cavour — io ho il convincimento che le restaurazioni non avranno luogo e che il potere temporale dei papi


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